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29 Marzo 2024

Una società senza valori

di Vittorio Lussana
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Una società senza valori

Quando si parla della cultura di un Paese, generalmente si pensa a quella categoria composta di professori, scienziati, scrittori, politici, letterati, registi cinematografici, artisti e musicisti. Ma le cose non stanno proprio così: quando si parla della cultura di un popolo non si fa riferimento esclusivo alla sua ‘intellighentia’, né al patrimonio di conoscenze popolari di operai e contadini, né tantomeno al nazionalismo di un Gioacchino Volpe, di un Gabriele D’Annunzio o di un Giovanni Gentile. La cultura di una nazione corrisponde esattamente alla somma di tutte queste ‘ricchezze spirituali’. Anzi, ragionando statisticamente, essa è la loro ‘media ponderata’. Ciò significa che la cultura di un popolo rappresenta un concetto astratto, non sempre riconoscibile sotto il profilo antropologico, che tuttavia produce una lunga serie di conseguenze pratiche. Per molto tempo, le nostre culture hanno infatti proposto una serie di ‘valori’ storicamente distinguibili tra loro. Ma questo genere di ‘distinzioni’ hanno dovuto cedere il passo a un processo di omologazione mediatica che non ha realizzato affatto l’ideale di un ‘nuovo’ potere, bensì quello più ‘vecchio’ possibile. A molti potrà sembrare paradossale quanto sto cercando di spiegare: un nuovo potere che ne realizza uno talmente vecchio che nessuno riesce più nemmeno a riconoscerlo. Proviamo allora ad analizzare alcune caratteristiche di questo nuovo/vecchio potere:
a) il suo rifiuto ad ammettere che possano esistere metodologie democratiche di Governo al contempo efficaci e rispettose del valore delle diversità;
b) il ritorno a un clericalismo che utilizza strumentalmente l’immane sforzo compiuto da Karol Wojtyla senza minimamente comprendere verso chi e nei riguardi di cosa quel Pontefice abbia chiesto sinceramente perdono;
c) la determinazione mediatica nel voler ‘appiattire’ tutti i cittadini su un modello ‘statico’ di società, annullando la base stessa di ogni forma di dialogo civile e sociale.
Questo nuovo/vecchio potere attribuisce a se stesso alcuni tratti ‘moderati’ sulla base, però, di un’ideologia sostanzialmente ‘edonistica’, che mantiene nel proprio seno numerosi elementi autoritari. La sua tolleranza, quando c’è, è falsa, poiché in realtà nasconde una fredda e calcolata determinazione a preordinare ogni cosa. Dunque, questo nuovo/vecchio potere altro non è che una forma modernizzata di fascismo che pone tutto e tutti sul medesimo piano, strumentalizzando anche le idiozie più degeneri e indegne. Esso non butta via niente di ciò che può tornargli utile: le imprecazioni popolari contro uno scrittore scomodo, le percezioni subliminali di ‘forza formale’ che si determinano nei dibattiti televisivi, durante i quali sembra aver ragione chi urla più forte, chi esprime la battuta più efficace, chi riesce a farsi giuoco non solamente dei torti della controparte, ma anche delle sue ragioni. Gli sta bene tutto, a questo nuovo/vecchio potere: dal bianco al nero, dal giorno alla notte, dal sole alla luna, dal qualunquismo populista al classismo borghese. Tale processo si chiama ‘omologazione’: la parola mantiene in sé un fondamento repressivo di integrazione forzata a un pensiero unico, di adesione incondizionata a un ‘antimodello’ di società interamente rivolto all’oggi, come quelle ‘tardone’ che lottano disperatamente contro il tempo che passa e quelle rughe che, immancabilmente, sorgono sui loro volti. Non è più nemmeno l’edonismo un po’ ingenuo del socialismo della ‘Milano da bere’ e della ‘Roma di notte’, una sorta di ‘joie de vivre’ di discendenza più ‘demichelisiana’ che ‘craxiana’. No: si tratta di un fascismo che non distingue più niente, che non incarna alcun progetto, che risulta privo di una qualsiasi idea futuribile di società e che non è più nemmeno retorico nella sua essenzialità umanistica, poiché è divenuto un qualcosa di gretto e pragmatico, le cui finalità corrispondono alle sue stesse metodologie, quelle, appunto, di un’omologazione priva di contenuti che vorrebbe costringerci a una strana forma di ‘ninfomania psichiatrica’, in cui ogni atto deve essere compiuto per il semplice gusto di farlo. Si tratta di un paradosso che ha origine dalla negativa funzione mediatica svolta dalla televisione e dalla mancata regolamentazione del suo mercato. Per dirla tutta: ha origine da colpe ed errori ascrivibili soprattutto alla cultura progressista, che non ha voluto comprendere come questo genere di impulsi ‘generalisti’ spingessero l’intera collettività a sbandare da un capo all’altro di ogni suo problema e di ogni suo versante, rimodulando e ripresentando le più consuete contraddizioni tra teoria e prassi, tra cause ed effetti, tra atti e fatti, senza mai riuscire a trovare soluzioni definitive ed efficaci. In questo potere paradossale, se non surreale, non esiste più alcun valore, più alcuna distinzione. Anzi, dell’ormai antico ‘nesso crociano’ non se ne conosce nemmeno la possibilità di utilizzo in quanto strumento analitico. Al contrario, con la forza dei propri mezzi di disinformazione e di dissuasione, questo nuovo/vecchio potere pretende di poter affermare e, al contempo, di negare, ogni genere di conflittualità sociale, a seconda della fase politica e di quel che più gli torna comodo. Siccome però è la forza della ‘materialità’ quella che, in un modo o nell’altro, alla fine prende il sopravvento, ecco che ciò che in teoria viene considerato moralmente negativo, se non addirittura malvagio, diviene il vero ‘messaggio’ di fondo, attraverso un rivolgimento concettuale talmente di ‘retroguardia’ da non riuscire a individuare alcunché di realmente costruttivo o edificante. Dietro le ‘quinte’ di simili ‘contorsioni’, che stanno letteralmente facendo il ‘diavolo a quattro’ all’interno della società italiana, vi è una sola presenza, una sola ombra inquietante: quella della Chiesa cattolica. La quale non chiede nemmeno un’osservanza ‘fiscale’ ai suoi princìpi, bensì la semplice affermazione ‘edonistica’ di essi. Il vero messaggio di fondo, ovvero quello effettivamente culturale, è che ognuno, nei limiti di ciò che è moralmente consentito, possa fare ciò che vuole, a patto di non determinare comportamenti potenzialmente capaci di trasformarsi in nuovi princìpi pubblici in grado di ledere il suo magistero più ‘integrista’. Ecco, dunque, il vero volto di questo nuovo/vecchio potere: quello del ‘clericofascismo’. Il quale, al contrario di quanto si pensa e si afferma, non è altro che mero giustificazionismo relativista, poiché quasi tutto può essere concesso allorquando ne esistono, appunto, le giustificazioni. E, di giustificazione in giustificazione, si giunge a una tolleranza falsa, utilitaristica, una ‘presa per i fondelli’ individuale e collettiva che finisce con l’assecondare una deriva meschina della società, nell’illusione, tutta ideologica, di poter riuscire a fermare il tempo, il mondo, l’intero universo. Nel ‘clericofascismo’ non esiste alcun genere di distinzione qualitativa: l’opinione della maggioranza, anche la più becera, vale più di quella della minoranza, senza calcolare minimamente che ciò si traduce in assemblearismo popolare ‘rousseauiano’, ovvero in ‘giacobinismo’, cioè una sorta di comunismo ‘ante litteram’. Nell’assecondare un simile processo omologativo, il fronte progressista ha le sue piene responsabilità, poiché anch’esso non produce più alcun sistema alternativo di società da proporre ai cittadini. Al contrario, la sua adesione ai modelli imposti è totale e incondizionata, poiché si rifiuta di comprendere come si stiano rinnegando quei valori culturali ‘laici’ fondamentali per uno sviluppo equilibrato di una moderna società. Questo ‘mostro’ clericofascista, a cui è stato dato un sostanziale ‘via libera’ sia nelle sue tradizionali forme demagogiche, sia in quelle più localistiche del cosiddetto ‘popolo del Nord’, si aggira indisturbato nei meandri della nostra società diffondendo autentici ‘spettri antisociali’, etichettando a casaccio intere categorie di genere e razza, esplorando ossessioni e frustrazioni che fanno man bassa di ogni assurdità, nel vivo ed esclusivo desiderio di trovare un colpevole qualsiasi su cui scaricare ogni responsabilità – il ’68 o, addirittura, la rivoluzione francese – pur di non ammettere la propria incapacità di adattamento a una società secolarizzata e la propria mediocrità antropologica e culturale. Si tratta di ignoranza vera, di un’abissale inconsapevolezza: la rivoluzione francese, tanto per fare un esempio, viene citata al fine di ricordare a tutti i 35 mila ‘ghigliottinati’ durante il periodo del ‘Terrore’, dimenticando però che essa ha spodestato il potere aristocratico della nobiltà terriera – al fianco della quale il clero era regolarmente schierato (!) - innervando con i suoi princìpi tutte le più moderne Costituzioni democratiche occidentali, nonché mettendo in campo un vero e proprio ‘gigante filosofico’, quello del liberalismo civile e sociale, che ha saputo in qualche modo affrancare buona parte dell’umanità dall’oscurantismo religioso e dalla schiavitù contadina. Identici ‘manicheismi’ vengono applicati nell’interpretazione del movimento studentesco del ‘68: esso non viene analizzato nella sua complessità storico - sociale, nelle sue cause, nelle sue contraddizioni, nel tipo di società, più libera e aperta, che è riuscito a produrre, ma come semplice prodromo del terrorismo eversivo di estrema sinistra e di ogni genere di ‘lassismo’ puramente soggettivo e circostanziale. Insomma, stiamo parlando di uno spaventoso tracollo verso la più totale ‘inculturazione’, che dimostra lacune abissali su quanto storicamente accaduto, che non possiede gli strumenti per comprendere e interpretare nulla di quel che succede, di un ‘revanchismo’ provinciale e piccolo borghese innestato a viva forza in un unico ‘calderone’ di ‘audience mediatica’ totalmente priva di scrupoli e di ogni qualsivoglia strategia tesa a renderlo riconoscibile, individuabile, misurabile. Perché se vi fossero le condizioni per misurare effettivamente i risultati di molti provvedimenti, soprattutto degli ultimi 15 anni, risulterebbe molto più semplice esercitare, da parte dello ‘Stato – Comunità’, un effettivo potere di controllo sui risultati e, soprattutto, sui ‘non – risultati’, dello ‘Stato – Governo’. Ma ciò è proprio quel che non si vuole, sia dalla parte del clericofascismo populista, sia in quella del burocratismo neo-democratico: che i cittadini possano controllare veramente gli esiti di una riforma qualsiasi, che la nostra comunità possa crescere concretamente e, allo stesso tempo, maturare spiritualmente, che tutta la collettività possa comprendere fino in fondo le turlupinature ideologiche alle quali viene sottoposta.

Nella foto: Street people, di Alessandro Andreucetti, acquarello (opera selezionata per la Shanghai Zhujiajiao International Watercolour Biennial Exhibition 2010)


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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