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16 Aprile 2024

La cucina italiana tra mostri sacri e mostriciattoli

di Gaetano Massimo Macrì - gmacri@periodicoitalianomagazine.it - twitter @gaetanomassimom
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La cucina italiana tra mostri sacri e mostriciattoli

Lo chef Anthony Genovese ci racconta cosa vuol dire fare cucina di livello. Quando si è davanti ai fornelli, non dovrebbero esserci mode o 'filosofie'. Alcuni grossi calibri sono troppo spavaldi? È vero, succede, ma la colpa è anche dei media...

Bravi ma troppo spavaldi? Parliamo dei nostri chef pluripremiati. Sono usciti dai fornelli e si sono trasformati in conduttori televisivi. E come personaggi dello star system a volte hanno un po' perso la bussola. Almeno questo é quel che sembra in alcuni casi. Perché il succo (è il caso di dirlo) qui é: o cucini (come Dio comanda) o fai la star in tv. Però è grazie a loro, anche, se si é creata una folta schiera di appassionati di cucina, che va bene al di là delle massaie che la domenica scoprivano nuove ricette nelle riviste comprate di sabato in edicola. Il risultato alla fine é soddisfacente. La cucina italiana é in salute. Anzi, forse non é mai stata così bene come in questo momento. Si parla ovviamente di qualità dei cibi, di accostamenti di sapori, in altri termini: di cucina in senso 'tecnico'. Meno di numeri. La crisi economica ha investito anche questo settore, che in Italia spesso non si sente tutelato né abbastanza riconosciuto  come all'estero. Comunque, ora che la grande cucina ha svelato i suoi segreti, la gente si sente coccolata dagli insegnamenti dei vip dei fornelli, si é fatta più 'furba' nella scelta dei prodotti e nella loro preparazione. Tutto questo interesse culinario ha generato un innalzamento della qualità del gusto degli italiani e, ovviamente, della ristorazione. Ogni medaglia ha però il suo rovescio. Spesso l'altro lato nasconde orrori e errori di cui non si parla volentieri. Lo chef stellato Anthony Genovese ci ha detto la sua. È stato schietto, ci ha fornito una lucida verità sullo stato in cui si trova quest'arte che vanta sempre più appassionati. Intanto, per chiarire fin da subito, non chiamiamola arte. "Lo chef è un semplice artigiano che lavora e farebbe bene a rimanere al suo posto". Troppa TV, poi, ha creato dei mostri, anzi dei "mostriciattoli, ma questo perché a volte c'è molta mediocrità in giro. Alcuni colleghi, pochi a dire il vero, indossano l'abito, ma non sono in grado di reggere un coltello in mano". Capita l'antifona? E non é tutto. 


Anthony Genovese, ma quindi é vero che i nostri se la tirano un po' troppo? Intendo quelli considerati più bravi. Cos'é,  hanno più spocchia degli stranieri?
"Mmm...'ní'. Qualcuno c'è. Si tratta però di una certa mediocrità che c'è in giro".

Non é che tutto deriva dal fatto che la cultura del cibo é talmente innata in Italia, per cui tutti ci sentiamo un po' chef?
"No, non credo. Conosco chef bravissimi, molto umili. Il guaio è che un certo tipo di 'media' ha trasformato alcuni di loro in piccoli mostriciattoli. Per fortuna il tempo è in grado di dare ragione a chi si mantiene umile e mostra rispetto".

Come vede lo stato di salute della cucina italiana?
"Fa fatica a livello economico, ma sul piano culinario credo che abbiamo raggiunto dei livelli eccellenti. Non si é mai mangiato così bene in Italia come in questo momento. In tutte le tipologie di ristoranti, dal basso all'alto. L'unica nota dolente é che fatichiamo a raggiungere la fine del mese. Mancano aiuti economici. Questo discorso vale per tutti, i più bravi e i meno bravi".

Cosa c'è lungo la strada per diventare uno chef?
"Tanti sacrifici, umiltà e qualche compromesso. Poi non dimentichiamo la voglia di imparare".

A proposito di "un certo tipo di media", alcuni suoi colleghi sono divenuti vere celebrità. Questo fatto vi disturba o é comunque un motivo di orgoglio per la vostra categoria?
"Più che altro mi fa sorridere. Alcuni li conosco bene, sono bravi e si possono permettere di essere delle cosiddette star. Ma sono due o tre. Il resto indossa solo giacche, non saprebbe tenere un coltello in mano. Per il resto vedo molta esagerazione, non solo in Italia, anche all'estero. C'è un proliferare di talk show sulla cucina e sulla figura dello chef, per cui tutti pensano di saper cucinare e di poter criticare. È l'effetto boomerang. L'unica pecca che stiamo vivendo adesso".

Non trova che si abusi troppo dell'espressione 'cucina tradizionale' anche da parte di chef di un certo rango? Una amatriciana, in fondo, la possiamo mangiare in casa a pochi centesimi. Che senso ha spenderne dieci volte tanto per qualche variazione sul tema?
"Sí, soprattutto per uno come me che é nato in un Paese e vissuto in un altro. Per me la 'tradizione' è il cibo che mangi a casa. Ormai c'é questa tendenza a rivisitarla, riproporla, revisionarla, ma a volte non la concepisco, mi dà un po' fastidio, sinceramente. Io mi aspetto di mangiare al ristorante qualcosa che a casa non mangerei. Purtroppo c'è una clientela che invece non la pensa così".  

Sempre per rimanere sul tema, si assiste al ritorno della tradizione anche attraverso prodotti venduti con un confezionamento che ricorda molto quelli di una volta. Dietro tutto questo cosa c'è? Qualità o solo marketing?
"L'Italia é un Paese che ha bisogno di sicurezza. Viviamo in un periodo di crisi, di grande panico, quindi ritroviamo un certo gusto. Ci sentiamo al sicuro se ritroviamo certi prodotti, certi colori. Facendo ritrovare alla gente certi prodotti 'di una volta', è come se dicessimo: 'non vi preoccupate, perché noi siamo qui'. Per rispondere alla sua domanda, ora, dico no, la qualità non tutti la guardano, perché pochi se lo possono permettere. Qualità vuol dire avere un costo, non sempre sostenibile da tutti. Poi, per concludere, viviamo in un mondo invaso dagli spot pubblicitari e la gente vede e compra quello che è commerciale. È la società che vuole questo".

Quali caratteristiche dovrebbe avere uno chef?
"È un artigiano. Deve rimanere al suo posto. Non dovrebbe abusare soprattutto di questo momento di celebrità della categoria e far credere  ai giovani che questo sia un mestiere facile".

Cosa consiglierebbe allora a chi vorrebbe intraprendere questa strada?
"Innanzitutto fare una buona scuola alberghiera. Poi iniziare a lavorare in una trattoria, per capire bene il mestiere. E dopo crescere pian piano passando per diverse tipologie di ristoranti".

È un'arte o una professione?
"No, non é un'arte. L'ho sempre detto. Sono contrario alla parola 'arte' come lavoro. Poi c'è sicuramente dell'arte nella presentazione del piatto. Ma un artista si alza la mattina e se non gli va di dipingere o scolpire, se ne torna a casa. Uno chef si alza tutte le mattine e lavora circa 14 ore al giorno. Quindi l'arte, se c'è, la si vede in un altro modo".

Fare lo chef all'estero é come farlo in Italia?
"Io ho vissuto e lavorato tanti anni all'estero, amo il mio Paese, però devo dire che là siamo più aiutati. O almeno più rispettati".

Cosa ne pensa della cucina vegana?
(Una lunga pausa eloquente) "La rispetto, ma mi dà fastidio quando te la impongono, ecco. Io rispetto tutti, ma non ho la pretesa di fare accettare o condividere".

E della filosofia del km 0? Recenti studi hanno dimostrato come non sempre si possa rispettare l'ambiente in quel modo. In altri termini, cento tonnellate di ananas provenienti dal Brasile nuocciono meno alla natura di dieci quintali di ravanelli provenienti dal territorio vicino. É una bufala, allora?
"Con questo fatto dell'inquinamento forse ci hanno preso in giro un po' tutti quanti. Allora, se uno mi dice: 'usiamo il prodotto italiano nostrano, io ci sto, bingo! Lavoriamo così. Però se non ho un prodotto italiano che mi serve? Che faccio, mi giro e ne trovo altro dalla Thailandia o dal Giappone. Quindi questo km 0... Cosa dovrei fare? Usare un piccione viaggiatore da S. Pietro?" (Il suo ristorante non è lontano dalla Basilica, ndr).

Il prodotto che ama cucinare?
"Amo la carne".

Quello che ama mangiare?
"Mi piace la cucina calabrese, quella della nonna. Perché, ahimè, non la mangio quasi più. Dovrei trovare qualcuno che la sappia fare, o scendere nei luoghi della mia infanzia. Là ci sono le mie emozioni, le mie sensazioni legate alla cucina".

Ringraziamo Anthony Genovese, che nel nome sembra avere poco o nulla di 'km 0', ma nella sua storia la tradizione, i sapori di una volta, sono ancora rimasti impressi nella memoria e sicuramente riaffioreranno nell'atto di inventare un nuovo piatto.


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Chi è Anthony Genovese
Chef e proprietario del ristorante "Il pagliaccio" di Roma. Di strada ne ha percorsa tanta, dalla Ecole Hoteliére de Nice nel 1985 ha poi fatto esperienza in altri capoluoghi europei e non solo. Da Tokyo (Enotecha Pinchiorri Ginza) a Marsiglia, Monaco e tanta Londra (Regent Hotel e Toto's Restaurant). Una esperienza anche in Malesia e in Italia da Pinchiorri a Firenze, prima del suo Pagliaccio. Di origini calabresi, ma cosmopolita per formazione. Un vero cittadino del mondo culinario. Si forma in Francia, poi si forgia a Londra e in Italia. Dal 2009 sfoggia due stelle Michelin e il suo ristorante viene considerato da molti il migliore della capitale.


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