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2 Maggio 2024

L'Italia attuale è come la Medea di Euripide

di Giovanna Albi
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L'Italia attuale è come la Medea di Euripide

Nella tragedia di Euripide, la grandezza risiede nella potenza del mondo irrazionale che travolge la protagonista senza mediazioni: è puro istinto e acceso furore, un corpo e un’anima che amano fino all’autodistruzione

La tragedia Medea è altamente espressiva del mondo concettuale 'euripideo'. E’ la più famosa tragedia del drammaturgo di Salamina, ottimo indagatore dell’animo umano. Per la prima volta nella storia della tragedia greca, il conflitto si dibatte entro un animo solo: è lei, Medea, che da sola, barbara e abbandonata, si dilania negli opposti sentire, lacerata tra razionalità e passione, insicurezza e decisionismo. Mentre nelle tragedie di Sofocle, la sensibile Antigone trova il suo antagonista in Creonte, qui l’antagonista non c’è. Giasone è una figura sbiadita: un borghese opportunista, non un uomo degno di spessore eroico. Anzi, diremmo che è l’anti-eroe per eccellenza. La tragedia, benché a essa sia legata gran parte della fama di Euripide, non vinse alle 'Grandi Dionisie' del 431 a. C., ma si piazzò terza, dopo un’opera di Sofocle, vincitore e di Euforione, figlio di Eschilo, secondo classificato. La qual cosa dimostra come i tempi ad Atene non fossero maturi per accogliere e interiorizzare il messaggio innovatore di Euripide, il quale spostava l’attenzione dal dio all’uomo, indagandolo con il 'bisturi' dell’analista. La radicale impostazione psicologica e il conflitto conseguente sono il segnale della crisi della 'polis', che non si ritrova più nei suoi antichi costumi e si prepara a perdere la dimensione di 'città-stato' democratica, cadendo sotto l’egida prima degli Spartani e poi dei Macedoni. Dobbiamo immaginare una rivoluzione copernicana, in cui tutto ciò che si era acquisito in termini di grandezza eroica e di stabilità politico-sociale, franò sotto l’ascia della guerra del Peloponneso, che decretò la vittoria di Sparta. Nel 431 a. C. siamo nel bel mezzo della guerra che coinvolse tutta la Grecia, perché tutti si schierarono o con Atene, o con Sparta. E amaro fu il destino di chi si astenne, come ci ricorda Tucidide nelle sue 'Storie', riferendoci l’episodio dell’isola di Melo, che non schieratasi venne rasa al suolo. La psicologia di Euripide scava dentro l’animo umano e ne esprime tutto il disagio esistenziale, frantuma l’essere tetragono, facendolo apparire fraglie di debolezza e momenti di amarissima riflessione sulla condizione umana. L’essere si moltiplica nelle sue infinite sfaccMedea_Maria_Callas.jpgettature e ha difficoltà a parlare con se stesso, figuriamoci con gli altri. Siamo caduti nella temuta incomunicabilità tra gli umani. In più, gli dei sono assenti. Se appaiono, sono solo 'fantocci' utili a risolvere l’intreccio: il famoso ‘deus ex machina’. Tuttavia, ciò non avviene per nulla nella tragedia di Medea, trascinata dalla più spasmodica tensione verso un tragico finale. Andiamo alla trama: dopo la conquista del vello d’oro nella Colchide (si vedano gli Argonauti di Apollonio Rodio, ndr), Medea e Giasone si trasferiscono a Corinto, insieme ai due figli. Va detto che Medea è un ‘nomen omen’ e significa ‘Maga’: un termine che ha la sua radice nel verbo ‘medèomai’: colei che cura con intrugli magici. E’ lei, infatti, che fornisce a Giasone il farmaco per addormentare il drago custode del vello d’oro. Quindi, è proprio grazie a lei che l’impresa si compie. L’ardimento e la passione dell’eroina non sono comuni per i Greci. L'altera Medea è sempre la 'barbara' donna che tradisce la sua gente, che inganna suo padre e uccide suo fratello, Ipsirto, per essere libera d’inseguire il suo amore. La grandezza della figura sta proprio nella potenza del mondo irrazionale, che la travolge senza mediazioni: è puro istinto e acceso furore. Lei è un corpo e un’anima che amano fino all’autodistruzione. Dopo qualche anno di convivenza a Corinto, il compagno Giasone si rivela in tutta la sua bassezza e meschinità, ripudiando Medea per sposare la figlia di Creonte, re di Corinto. Il che gli darebbe diritto di successione al trono. Egli è dunque l’uomo freddo e calcolatore, scialbo e opportunista, che non sa cosa sia la passione e, nella sua sprovvedutezza disarmante, non riesce a presagire gli effetti della sua decisione nel fiero animo della 'barbara', che non si è mai integrata nell’ambiente che la ospita, dove si sospetta di lei in quanto straniera e dotata di una superiore sapienza: la magia. Tutta la tragedia si svolge dentro il suo animo. Ed è straordinario come, in questa rivoluzione 'euripidea', sia proprio Medea a risultare l’eroina, mentre il greco Giasone è l’ombra di se stesso: una figura assolutamente secondaria. Lui sa opporre solo ragionamenti di convenienza, mentre Medea, con ardore e passione incontrollate, si lamenta col coro delle donne corinzie. Creonte, che sospetta una vendetta, le ordina la lasciare la città. Ella, allora, finge di scendere a più miti consigli e ottiene di rimanere un solo giorno in più, che le servirà per realizzare il suo piano. In un colloquio drammatico con Giasone, parodia dell’eroe mitico, si scava un abisso incommensurabile tra le due figure. Sicché, Medea decide di infliggere al traditore una terribile vendetta. A ciò la induce un viluppo di sentimenti, che ella è in grado di esaminare razionalmente, ma non di superare col cuore. Perché in lei dibattono diverse anime, ma soprattutto razionalità e passione. Questo configgere ne fa un personaggio straordinario: si sente frustrata nella sua sessualità; ordisce la vendetta; ha orrore dell’isolamento; smania di affermare la propria personalità superiore, consapevolezza della sua forza intellettuale; interpreta profondamente il senso della giustizia violata. Il tutto genera un’ansia disperata, che la induce al progetto fatale. Per vendicarsi dell’uomo annienterà ciò che ha di più bello: i suoi figli, ferendo a morte la sua maternità. Masochismo femminile? Freud direbbe di sì: si tratta di un autentico progetto di autodistruzione. Manda quindi i figli dalla novella sposa con in dono una ghirlanda e una veste avvelenate. La fanciulla, indossatele, muore in fiamme insieme al padre, che tenta di salvarla. I poveri bimbi, che non parlano mai, sono vittime sacrificali che ora non hanno più scampo. Medea li uccide con le proprie mani, poi si eleva con i loro corpi sul carro del Sole, suo progenitore, irridendo crudelmente lo strazio di Giasone. Vendetta, atroce vendetta, che è poi affermazione della dignità della donna conculcata in Atene; polemica contro le argomentazioni di una falsa giustizia, interpretata da Giasone; accusa contro l’isolamento dell’intellettuale; ma, in primis, rivendicazione del libero arbitrio, nel bene e nel male. L’uomo, rimasto senza dei, è “faber fortunae suae”. Anche se il pessimismo 'euripideo' identifica tale destino come un processo di autodistruzione.
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Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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