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25 Aprile 2024

Ma l'utopia esiste ancora?

di Gaetano Massimo Macrì
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Ma l'utopia esiste ancora?

Da quando Tommaso Moro scrisse per primo di quel 'non luogo' (letteralmente è questo il significato del termine utopia), di Stati utopici e delle loro conseguenze ne sono stati immaginati diversi. "1984" di G. Orwell o "Il nuovo mondo" di A. Huxley sono un esempio. 
Ma, se il termine utopia indica una meta intesa come puramente ideale e non effettivamente raggiungibile (accezione che può avere sia il connotato di punto di riferimento su cui orientare azioni pragmaticamente praticabili, sia quello di mera illusione e di falso ideale) l'utopista – inteso sia come coniatore di utopie, sia come semplice propugnatore, sia come pensatore utopico critico – è un sognatore o più semplicemente un ingenuo?
Perché pensare a una realtà che si astrae dalle sue stesse dinamiche è, di norma, un'ipotesi difficilmente attuabile. Ma ambire a qualcosa di diverso, migliore dell'attuale (ogni utopia contiene una base di protesta, nasce in contrapposizione a qualcosa che non funziona come dovrebbe) è ben più di una futile fantasia. Così ci siamo chiesti: quali sono le utopie moderne? Come si chiamano? Dove si nascondono? A risponderci è stato Danilo Breschi, professore di Storia del pensiero politico presso l'Università di Studi Internazionali (Unint) di Roma.  

Professor Breschi, l'utopia è davvero solo un'isola che non c'è?
"L’utopia è un aspetto essenziale della cultura politica moderna e contemporanea, un ingrediente che proietta lo sguardo di chi abita la polis, lo Stato, la nazione, sempre al di là, se non contro, il presente, lo status quo. Uno sguardo – “teoria”, in greco, significa appunto questo – rivolto costantemente e tenacemente al futuro. Un aspetto essenziale, e ineludibile, come lo è la religione nella storia dell’Europa e di quel suo prolungamento, evoluzione e trasformazione, che è l’Occidente anglo-americano". 

Sarebbe scorretto relegare l'utopia al solo terreno della immaginazione?
"Sì, sarebbe scorretto proprio nella misura in cui l’utopia affonda le proprie radici nel messianismo, ossia nel profetismo ebraico. Non è un caso che assai spesso nel corso dei secoli i movimenti radicali o rivoluzionari abbiano fatto riferimento, diretto o indiretto, al Libro dell’Esodo. Quasi in ogni movimento politico di liberazione dall'oppressione si ritrovano parole e stili di discorso propri di quella narrazione biblica, paradigma del cammino verso l’emancipazione completa e definitiva". 

Pensiamo al cinema: Matrix cosa mostra se non una finta realtà? Per uscire dalla quale serve un'utopia.
"Bisogna intendersi quando si usano parole dai molteplici significati, com’è il caso di utopia. Si è soliti, nel linguaggio corrente, associare l’utopia all’immissione di sogni e ideali nella politica, senza i quali quest’ultima sarebbe cosa morta e mortifera. Si rischia così di confondere le acque. Un conto è la vita individuale, di ciascuno di noi, un conto quella di una comunità politica, di uno Stato. L’utopia politica, perché è di questo che si intende qui parlare, è una costruzione mentale sostanzialmente precostituita, dunque in sé perfetta, armonica, senza smagliature o impurità, che si vuole applicare alla realtà perché così com’è non ci piace. Per rispondere alla sua domanda, direi che l’utopia, quella politica intendo, non è un’uscita dalla finzione, ma l’iniezione di una robusta dose di finzione nella realtà. È l’opposto del senso di realtà, che è misura, limite, imperfezione". 

La realtà virtuale può essere un'utopia?
"Nel senso appena detto, sì. Una sorta di Second Life, o meglio: un Truman Show. Ecco, nella costruzione utopica magari realizzata c’è sempre questo rischio: che la convivenza utopica sia una messinscena e che dietro le quinte vi sia un burattinaio. Per avere la perfezione, illudersi di averla, si perde sempre parecchia libertà, se non tutta". 

Oggi ci sono ancora progetti 'politici' utopici? Qualcuno che insomma voglia realizzare un sogno, in concreto?
"Dopo la fine dell’Unione Sovietica e del comunismo fattosi Stato, direi che non si vedono all’orizzonte veri e propri progetti utopici. Almeno in Europa. Forse qualche slancio utopico si ritrova in certi movimenti dell’ambientalismo radicale, che non a caso recuperano spesso forme spurie di religiosità apocalittica e messianica". 

In medio Oriente, per esempio, possiamo parlare di utopie?
"Se per medio Oriente intendiamo il mondo di fede islamica, diciamo che l’idea della restaurazione del Califfato, che circola in molti gruppi fondamentalisti e di cui ci narrano le cronache spesso tragiche di oggi, svolge la stessa funzione di un’utopia politica, o meglio di un’ideologia, essendo una teoria che mobilita all’azione, come vediamo anche violenta, omicida e suicida". 

C'è del totalitarismo nei progetti utopici?
"Indubbiamente sì. Con la scusa delle buone, anzi ottime, intenzioni e del perseguimento dell’ottimo per tutti su tutto e in tutto si finisce con la pretesa di prevedere e dunque controllare tutti e tutto. Come si sa, le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Il problema è che l’utopia come città ideale e perfetta non sopporta la variazione e l’imprevisto. Ma cos’è la vita se non il mutamento e l’inatteso? Detto ciò, occorre avere speranze e sogni, anche come gruppi, ma questi saranno innumerevoli e diversi l’uno dall’altro. Una società, un sogno, equivale a dire una gabbia, un incubo. Fai sì che ogni individuo di quella data società possa coltivare sogni ed avrai creato una società “ideale”, per quel che è umanamente possibile". 

Nel "sessantotto" l'utopia era contrastare la realtà? Non sarebbe stato meglio 'comprenderla'?
"Il discorso sul Sessantotto è quanto mai complesso. Su alcune sue radici ideologiche ho scritto vari articoli e anche un libro, che guarda caso si intitola Sognando la rivoluzione. Dunque fu consistente la dimensione utopica nella Contestazione, come anche fu definito il movimento sessantottesco. Qui mi limito a rispondere che si contrastarono istituzioni, costumi e valori di una società che stava eclissando da parte e a favore di una società, quella dei ventenni/trentenni, che stava emergendo. Una società, quest’ultima, che era il frutto terminale di un processo di modernizzazione e globalizzazione che è proseguito fino ai giorni nostri. Dunque, da un certo punto di vista, i contestatori la compresero assai bene la realtà del proprio tempo e si “limitarono” ad esserne levatrici, talora col forcipe, perché fosse partorita quella società liberale e individualistica di massa, del benessere e dei consumi, giunta fino a noi. Ed oggi un po’ in crisi".


Danilo BreschDanilo_Breschi.jpgi. Chi è

Il Prof. Danilo Breschi vive e lavora a Roma, dove insegna Storia del pensiero politico presso l' Università di Studi Internazionali (Unint). Tra i numerosi incarichi scientifici che ricopre, ricordiamo: membro del Comitato scientifico dell'Istituto Storico per il Pensiero Liberale (ISPLI) e del Comitato di Direzione della "Rivista di Politica" (RdP); membro del Comitato scientifico della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ; membro del Research Network on the History of the Idea of Europe. Tiene lezioni, conferenze e seminari in varie università, italiane ed estere. Ha all'attivo diverse pubblicazioni, tra cui ricordiamo il libro "Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del '68" Firenze, Mauro Pagliai Editore 2008 (finalista premio Carver 2008).


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