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30 Aprile 2024

Un’ipotesi di nuovo Stato

di Vittorio Lussana
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Un’ipotesi di nuovo Stato

In un sistema politico che cerca nuovi equilibri e rinnovate identità fra destra, centro e sinistra, il vero cambiamento può nascere dalla riforma di un solo, inequivocabile e indiscutibile, elemento di identificazione comune nella guida del Paese: il senso dello Stato.

I richiami al liberalismo da parte di molte forze politiche del nostro Paese resuscitano un tipico provincialismo intellettuale tutto italiano. Sia le nostre forze progressiste, sia quelle moderate, non hanno mai proceduto alla rilettura della propria storia, basata su anatemi populisti che hanno, di fatto, affossato ogni possibilità di un serio dibattito sulle forme liberali da attuare attraverso l’azione dello Stato. Nelle società sottoposte a rapida industrializzazione, il populismo può apparire una forma di ‘reazione’ a quei processi di modernizzazione economica che rompono il tessuto culturale della società e sconvolgono antichi equilibri sociali, ai quali non corrispondono una pari modernizzazione sociale e politica anche a causa di una classe dirigente poco capace di fornire una pronta risposta alla domanda politica, di strutture costituzionali, politiche e burocratiche, che sembrano garantire soltanto la conservazione e non l’innovazione, oppure ancora di ambedue le cose assieme. Pertanto, prima di richiamarsi a un generico liberalismo occorrerebbe ridefinire, all’interno delle diverse coalizioni, la forma e le funzioni di un nuovo Stato. Non è sufficiente sostenere: “Lo Stato deve fare questo, lo Stato deve fare quello”. Appare, invece, necessario dar corpo a una moderna rielaborazione delle funzioni di indirizzo del settore pubblico, che non si limiti solo a qualche normativa di ‘snellimento amministrativo’, le quali dimostrano, il più delle volte, la non volontà di affrontare seriamente il nodo strutturale di fondo: quale Stato? Per dare una risposta sufficiente a un simile quesito, occorre distinguere le due forme fondamentali di liberalismo, le quali, al contrario, vengono spesso fuse insieme generando grande confusione anche nell’azione politica: liberalismo politico e liberismo economico. Il liberalismo politico, come ricorda Giovanni Sartori, non corrisponde al liberismo economico, bensì “è la teoria e la prassi della libertà individuale, della protezione giuridica e dello Stato costituzionale”. Il liberismo economico, invece, è la confusa commistione tra l’ormai nota teoria economica del ‘laissez faire’ e lo sviluppo di uno Stato liberale ottocentesco alle prese con una travagliata rivoluzione industriale, della quale fu più vittima che artefice. Diviene dunque indispensabile rinverdire alcuni ricordi storici, per non commettere l’errore di confondere la funzione politica del liberalismo con il generico liberismo richiamato dalle attuali forze politiche. Ciò, al fine di ricondurre queste ultime a una corretta azione di rinnovamento delle istituzioni del Paese. Altro tema da affrontare è inoltre quello dell’uguaglianza: la sinistra italiana si richiama al liberalismo quasi esclusivamente per far comprendere quanto soffocante sia stata l’azione dello Stato in tale settore, ma non per riconnettersi all’eguaglianza liberale, ritenendo tale concetto di esclusiva appartenenza della borghesia produttiva. La tal cosa rappresenta un falso storico, poiché più le società progrediscono, tanto più le stesse accrescono il livello di eguaglianza sociale e collettiva verso l’alto. Vale a dire che distinte forme di eguaglianza sono direttamente proporzionali alla sicurezza economica e, soprattutto, alla reale tutela dei diritti individuali. Nel liberalismo, l’eguaglianza è soprattutto un valore politico e, solo successivamente, assume caratteristiche economiche. Ed è per questo motivo che occorre, oggi, passare da una tutela, per così dire, di ‘massa’ a una forma di sostegno ‘specializzata’ del singolo cittadino. Per fare ciò, occorre rivedere l’enorme ‘guazzabuglio’ di una legislazione sociale che non corrisponde più, nelle sue fattispecie, all’esigenza di una difesa puntuale dei diritti dei singoli individui. Questo, prima della libertà economica, è il vero nodo da sciogliere, poiché è su tale terreno che il liberalismo si può tradurre in una democrazia sostanziale, annullando le proprie origini per la forza propria del seme generato, come nel ‘caso americano’. Oggi, a quanti si richiamano alla democrazia degli Stati Uniti sfugge quanto in questa sia viva la forza del liberalismo. Orbene, nessuno dei nostri schieramenti politici attuali possiede in sé la capacità di sviluppare compiutamente il ‘divenire liberale’ insito nelle moderne democrazie occidentali, poiché in ciascuna coalizione ancora albergano credenze – o strascichi -ideologici che non rispondono a corrette analisi sul mondo moderno e contemporaneo. Possiamo definire l’attuale centrosinistra una matura forza progressista la cui evoluzione deriva dalle sue distinte scuole culturali? Certamente no. Dobbiamo prendere atto che la sinistra italiana è rappresentata da filoni più o meno rivoluzionari, cooperativistici, utopisti, corporativi, ambientalisti in una chiave sostanzialmente schematica. La sinistra italiana appare insomma un arcipelago simile alla nascita della sinistra europea nei lontani anni trenta del secolo XIX. Se, in quel tempo, il termine da consolidare era ‘socialismo’, oggi, per molti, la parola ‘magica’ e quella del liberalsocialismo, formulazione assai confusa che, anche nello stesso Rosselli, non trova una compiutezza tale da elevarsi a metodo e strategia politica. Al contrario, se per liberalsocialismo intendiamo quella fusione tra il rispetto delle libertà ideali congiunte a un corretto sviluppo economico, accompagnato da una garanzia di benessere, non solo materiale, per le masse, allora occorre analizzare i sistemi democratici più complessi al fine di rendersi conto di quanto essi siano incardinati su un liberalismo politico e su un sistema di mercato in una chiave prettamente capitalistica. Ciò vuol dire che la sinistra, compresa quella di ispirazione cattolica, deve abbandonare gli ultimi tentativi, per nulla propiziatori, derivanti dai propri ideologismi o da una variante mediatica e modernizzata del francescanesimo. Anche la destra non naviga in acque molto più limpide: essa deve intendersi se perseguire un liberismo ‘selvaggio’, impraticabile nel nostro Paese, o uno statalismo ormai incompatibile con il tessuto produttivo italiano. Ma se la destra riuscisse a sviluppare un proprio modello, abbandonando inutili ‘revanchismi’ culturali e trovando un giusto equilibrio tra sviluppo e occupazione, allora potrà diventare essa stessa una valida alternativa a democristiani e post comunisti. In ogni forza politica italiana vi sono evidenti difficoltà per il superamento definitivo dei programmi storici o di quelli imposti sotto la necessità di una revisione piuttosto accelerata, forzosamente indotta dai fatti dei primi anni ’90 del secolo scorso. Tuttavia, non è impossibile affermare che per il sistema politico italiano vi sia ancora un lasso di tempo sufficiente ai fini di un’affermazione di nuove proposte. In ogni caso, occorre partire dal tema primario, tra quelli di valore liberale: lo Stato e, all’interno di esso, le funzioni del cittadino e le sue libertà - non ultime quelle economiche - per terminare con i meccanismi di giustizia e quelli di garanzia o di controllo.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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