Il mensile di informazione e approfondimento che
intende riunire culturalmente il nostro Paese nel pieno rispetto di tutte le sue tradizioni, vocazioni e ispirazioni ideologiche e politiche.
diretto da Vittorio Lussana
Area Riservata
30 Aprile 2024

La scuola è finita

di Vittorio Lussana
Condividi
La scuola è finita

Uno dei luoghi comuni più tipici degli ambienti conservatori italiani è l’accusa di un predominio progressista e di sinistra sulla nostra produzione culturale, comprendendo in ciò anche una sorta di egemonia sugli ambienti universitari o su quello della scuola. Si tratta di un grave errore di confusione, derivante dall’evidente complesso di inferiorità di chi è solito mescolare il mondo delle case editrici o dei circoli letterari con quello dei professori di liceo o dei docenti accademici.

Per quanto concerne il mondo della scuola italiana, infatti, è vero esattamente il contrario: tranne qualche periodica eccezione, la nostra istruzione pubblica è sempre stata guidata da esponenti moderati e da una vera e propria ‘cappa burocratica’ di esplicita derivazione cattolica. Mi sto riferendo a un’egemonia pudicamente definita “presenza cristiana nella società”, in cui l’invito alla repressione sessuale è stato solo uno degli aspetti di un progetto educativo ad ampio raggio volto a formare un esercito di fedeli devoti con l’ausilio di strumenti come la stampa per ragazzi, l’associazionismo sportivo, il cinema, gli oratori fondati sul binomio gioco – preghiera, la letteratura giovanile e, appunto, la scuola. A ‘confessionalizzare’ l’istruzione italiana di ogni ordine e grado ha provveduto l’esponente democristiano Guido Gonella, assiduo frequentatore di ambulacri vaticani e ininterrottamente ministro della Pubblica Istruzione dal 1946 al 1951. Circondato da un agguerrito stuolo di consulenti e coadiuvato da potentissime organizzazioni di insegnanti cattolici, egli è riuscito in qualche modo a “legare l’avvento della democrazia postfascista a istanze incentrate sullo sviluppo della partecipazione popolare attorno al dispiegamento della sua vocazione comunitaria e religiosa basata sulla famiglia, sui gruppi delle comunità locali e, naturalmente, sulla Chiesa”. Ma Gonella non si limitò solamente a saziare il desiderio di rivincita di ambienti decisi a disciplinare ‘otia e negotia’ di un settore particolarmente nevralgico dell’impostazione culturale, morale e civile degli italiani, bensì si impegnò a fondo al fine di rendere più proficuo, in termini moralistici, l’esercizio stesso dell’insegnamento, almanaccando una riforma della scuola media ‘unica’ attorno a criteri totalmente personalistici, che hanno sempre configurato il triennio post elementare in quanto mero segmento dell’obbligo scolastico e non come un ‘raccordo’ per il proseguimento degli studi. Oltre a ciò, la scuola italiana, per interi decenni, è stata variamente inondata da testi e manuali assolutamente ‘sermoneggianti’, come ad esempio i lavori di Fanciulli, Anguissola e Visentini sponsorizzati direttamente dall’Azione cattolica, mentre nulla è stato mai fatto al fine di assecondare un fondamentale istinto alla lettura dei nostri ragazzi. Anzi, la letteratura per bambini e per adolescenti, da sempre infarcita di avventurismo ‘salgariano’ per i maschietti e dal ‘vezzosismo’ di Louise M. Alcott, - l’autrice di ‘Piccole donne’ - per le femminucce, venne addirittura condannata in quanto impregnata di ideologia ‘superomistica’ (Salgari) o squisitamente ‘edonistica’ (Alcott), mentre sarebbe stato più auspicabile un tratto culturale ispirato a un esotismo a sfondo coloniale e missionario. Ed ecco allora tutto un fiorire di tentativi editoriali, come ad esempio la collana ‘Vie della sapienza’, curata da Piero Bargellini per l’editore Vallecchi, o l’ingresso nella narrativa del pedagogista Luigi Volpicelli con il suo, peraltro modesto, ‘Giuffé’. L’attenzione maggiore è sempre rimasta concentrata sui testi di letteratura ‘coatta’, in cui è stata letteralmente assassinata ogni forma di sapere eclettico e di passionalità giovanile alla lettura formativa attraverso ‘pesantissime’ antologie scolastiche – Centiloquio, Pagine aperte, Due secoli – alle quali l’instancabile Bargellini vi si è dedicato nell’idiota convinzione che un semplice marchio di convalida ministeriale potesse renderle formidabili veicoli di trasmissione dei principi cristiani. Ma ecco che, proprio sul più bello, a scompaginare ogni piano di irrigimentazione cattolica della formazione culturale giovanile giunsero, inaspettati e vincenti, i ‘fumetti’: un veicolo eccezionale di lettura facile e divertente. Subito, le gerarchie cattoliche cercarono di debellarli, ora teorizzando interventi a colpi di forbice, ora investendo il mondo politico italiano di anatemi e di inviti a battaglie ‘campali’. Secondo Luigi Volpicelli, infatti, i fumetti nascevano “con la pistola in mano”, non potevano disincagliarsi dalla rete di violenza e di sadismo che li rendeva allettanti ed erano ‘figliastri’ di un cinematografo sulle cui nulle potenzialità didattiche il giudizio rimaneva inappellabile. Per la cultura cattolica si trattò di una sconfitta micidiale, clamorosa, causata da un cipiglio conservatore che riuscì solamente a sottostimare persino le grandi capacità artistiche di alcuni disegnatori italiani, come quelle del ‘delirante’ Benito Jacovitti, con le sue tavole affastellate di surreali lische di pesce e di assurdi salami tagliati a metà. In ogni caso, è bene ricordare come le appassionanti vicende relative alle varie riforme scolastiche succedutesi sul devastato campo della nostra istruzione pubblica siano storicamente da considerare una rassegna di contraddizioni e incongruenze da giustificare l’internamento immediato dell’intera nostra classe politica presa nel suo complesso. La scuola italiana venne riordinata e riqualificata per la prima volta da Giovanni Gentile nel 1923. Si tratta di un impianto che ancora oggi rimane alla base del nostro sistema didattico, da sempre vittima di suggestioni nostalgiche dal vago sapore ‘elitario’. In seguito, il tema di una riforma di più ampio respiro divenne il ‘terreno’ di tensioni politiche devastanti. Nel 1959, venne posta in discussione al Senato una proposta di legge comunista, la ‘Donini – Luporini’, che i socialisti condividevano praticamente per intero. Ma l’allora ministro della Pubblica Istruzione, il democristiano Giuseppe Medici, decise di approntare un proprio progetto che non si discostava affatto dal vecchio disegno ‘bottaiano’. La proposta Medici venne criticata da più parti per il proprio immobilismo e le evidenti incongruenze, ma allorquando il presidente del Senato, il liberale Cesare Merzagora, minacciò di portare in discussione proprio il disegno di legge del Pci, il Governo Segni di quel tempo si decise finalmente a dar vita a un ddl “Medici 2” che congiunse ‘gattopardescamente’ la differenziazione degli accessi alle scuole superiori non più a una quadripartizione istituzionale dei corsi, bensì in base alle opzioni compiute dagli alunni nel secondo anno di scuola media inferiore. Nel frattempo, però, gli eventi precipitarono con la costituzione del Governo Tambroni e i moti genovesi del luglio 1960. E della riforma scolastica non se ne parlò più, sino all’insediamento di un nuovo monocolore democristiano presieduto da Fanfani, sostenuto all’esterno dai Partiti laici e con la ‘benevola’ astensione dei socialisti (il famoso Governo “delle convergenze parallele”). Il nuovo esecutivo, attraverso l’azione del ministro Giacinto Bosco, tentò di aggirare ogni ostacolo sperimentando, per via amministrativa, fino a 304 cicli di scuola media inferiore unificata, presentando, al contempo, presso la VI commissione del Senato, una serie di emendamenti che accoglievano in gran parte le richieste socialiste, compresa la soppressione dei corsi post elementari. I giochi sembravano fatti, ma la sostituzione a viale Trastevere di Bosco con Luigi Gui – un ‘doroteo’ dal temperamento ‘spigoloso’ – scompigliò nuovamente gli equilibri raggiunti, inondando Palazzo Madama di emendamenti che cancellavano totalmente il lavoro del precedente ministro. Il conflitto divenne, a quel punto, apertamente politico. E venne risolto in sede di trattativa dal cosiddetto ‘compromesso Codignola – Gui’, il quale, dopo opportuna ‘blindatura’, venne portato in Aula e approvato benché rappresentativo di una riforma scolastica ‘monca’, che non incideva più di tanto sul vecchio assetto ‘gentiliano’. Venne poi l’epoca rivoluzionaria del ’68 a dare un altro ‘scossone’ all’immobilismo italiano sulle questioni didattiche ed educative. Si tenga nota che le agitazioni ‘sessantottine’, nel nostro Paese, presero le mosse dall’ostilità vero il progetto di legge n. 2314 – il cosiddetto ‘piano Gui’ – nel quale, nonostante un’intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell’ordinamento si erano risolte in ‘briciole’ che continuavano a rivendicare puntigliosamente il controllo del potere esecutivo sui programmi e su ogni provvedimento emanato dagli organismi accademici. In altri Paesi, i problemi sollevati dai movimenti studenteschi avevano toccato la scuola solamente per chiedere una maggiore agibilità e, nelle Università, per sollecitare una reale indipendenza della cultura dal potere. Qui da noi, invece, la ‘battaglia’ contro il ‘piano Gui’ finì col rappresentare l’unico elemento di coagulo prevalente, il solo realmente di massa. E le elaborazioni di giovani teorici, spesso assai pregevoli, rimasero isolate, trasformando la ‘battaglia’ in negativo, facendole cioè assumere caratteri di retroguardia. In Francia, ciò non era accaduto affatto: dopo il ‘joli mai’, Georges Pompidou si era infatti affrettato a predisporre una riforma generale che riuscisse a porre fine al controllo ministeriale su scuole e atenei, tarpando per sempre le ali a ogni genere di contestazione. Anche in Italia si tentò di imboccare la medesima strada con il ddl n. 612, il quale prevedeva un reclutamento più severo dei professori, l’obbligo del tempo pieno, l’incompatibilità con l’esercizio della libera professione per il personale docente, la pianificazione delle sedi con divieto di corsi decentrati, nonché organi di autogoverno fondati su meccanismi di rappresentanza autenticamente democratici. Ma i democristiani la ‘buttarono subito in caciara’, accusando i socialisti di voler imporre una ristrutturazione sostanzialmente ‘libertaria’ dell’intero mondo accademico e scolastico. Di quel progetto di legge non se ne fece mai nulla. E solo alla fine del 1969 si riuscì a giungere a un estenuante ‘palliativo’, denominato ‘Codignola uno’ – Legge n. 910 del 1969 – attraverso il quale si decise, sostanzialmente, di liberalizzare l’accesso a tutte le facoltà universitarie per i diplomati di tutte le scuole secondarie superiori. Tuttavia, anche il ‘Codignola uno’ rappresentava ancora una legislazione ‘monca’ la quale, tra l’altro, arrivava con grave ritardo. In ogni caso, i movimenti studenteschi degli anni ’60 e ’70 ebbero il merito di contribuire a un cambiamento di mentalità e a una graduale diminuzione del fenomeno della cosiddetta ‘selezione esplicita’. Agli inizi degli anni settanta, però, il tentativo di una riforma della scuola secondaria superiore si arenò nuovamente: una parte della storiografia specialistica ha sempre sottolineato come si sia verificato un processo di lungo periodo di ‘cambiamenti senza riforma’, di cui gli aspetti più rilevanti furono il forte sviluppo dell’istruzione tecnica e il superamento dello storico divario tra istruzione maschile e istruzione femminile, almeno a livello di scuole secondarie. Una novità importante fu quella dei decreti delegati approvati nel 1974, che introdussero nella vita della scuola una rappresentanza dei genitori, del personale amministrativo, tecnico e ausiliario, nonché degli studenti (solo nella scuola superiore). Ma il cambiamento maggiore investì la scuola elementare: a partire dalla legge n. 820 del 1971 nacque la scuola a tempo pieno per rispondere ai bisogni sociali dell’utenza, un tentativo destinato a diventare un discreto laboratorio di innovazione in virtù dei tempi ‘distesi’ per l’apprendimento e per lo spazio curricolare che si apriva verso i nuovi saperi. La legge n. 517 del 1977 introdusse in seguito il principio dell’integrazione mediante l’assegnazione di insegnanti di sostegno alle classi che accoglievano alunni portatori di handicap. Si aprì inoltre la possibilità di attivare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni e si stabilirono nuove norme di valutazione abolendo gli esami di riparazione per la scuola media. Nel 1979 vennero riformati i programmi della scuola media con la scomparsa del latino come disciplina autonoma. Non mancarono, in seguito, dei periodi di innalzamento dei livelli di bocciature selettive, ma il problema più scottante – e inaffrontato - rimaneva soprattutto quello della cosiddetta ‘dispersione scolastica’, ovvero del mancato conseguimento di livelli adeguati di apprendimento, nonostante la regolarità degli studi e l’assenza di bocciature. Più volte, nel corso degli anni, si è cercato di abbozzare l’elevamento dell’obbligo scolastico senza tuttavia andare mai a buon fine. Per esempio, negli anni ’80 si ipotizzò di ristrutturare il primo biennio della scuola superiore come propedeutico al triennio successivo, oppure di renderlo un semplice proseguimento della scuola media inferiore da abbinare ad alcuni corsi di formazione professionale. Non mancarono alcune innovazioni didattiche, come l’avvio dei ‘programmi Brocca’ indirizzati ai licei e in parte agli istituti tecnici, o il ‘progetto 92’, che riorganizzò l’istruzione professionale. Significativi furono invece i mutamenti della scuola elementare con i programmi del 1985 e la legge del 1990, che ebbe come conseguenza l’introduzione di una pluralità di docenti per la stessa classe. Secondo i detrattori, quest’ultima norma fu realizzata senza tener conto delle specifiche competenze degli insegnanti, diventando spesso fonte di dinamiche ‘perturbanti’ relativamente alla prevalenza dell’uno o dell’altro componente. In tutti i casi, i programmi delle scuole elementari del 1985 e gli orientamenti delle scuole materne del 1991 segnarono, per l’ennesima volta, una stagione di riforme che non derivavano tanto da un impulso politico, quanto da una sorta di ‘autogoverno’ delle culture professionali di cui anche la pedagogia accademica è in larga parte espressione. L’eliminazione degli esami di riparazione, attuata durante il primo governo Berlusconi per opera del ministro D’Onofrio nel 1995, fu un altro cambiamento critico fonte infinita di polemiche e di recriminazioni. Nel 1996, le elezioni politiche vennero vinte dalla coalizione dell’Ulivo. A capo del dicastero della Pubblica Istruzione viene posto l’ex rettore dell’Università di Siena, Luigi Berlinguer, il quale si propose importanti obiettivi: l’innalzamento dell’obbligo scolastico, la riforma dell’esame di maturità, l’autonomia delle scuole e il riordino dei cicli. Berlinguer, nel gennaio del 1997, pubblicò anche un primo ‘Documento di discussione sulla riforma dei cicli di istruzione’ che si disse ispirato a un documento dal titolo ‘Prospettive europee per il sistema formativo italiano’, fatto circolare nel settembre del 1996 da Attilio Monasta. In tale documento erano delineati i principi ispiratori dell’azione del ministro. Fra questi, in primo luogo, la necessità di superare la distinzione tipica del sistema formativo italiano tradizionale fra cultura e professionalità e, quindi, fra formazione culturale e formazione professionale. Uno dei concetti fondamentali era quello di una nuova professionalità in quanto capacità di controllo e direzione dei processi in cui ciascun studente è inserito, un concetto frutto della cultura sindacale degli anni settanta. Inoltre, il percorso scolastico veniva articolato non più per ordini e gradi di istruzione, bensì per obiettivi di apprendimento, con una sostanziale continuità dei cicli di istruzione. Due soli possibili modelli: o due cicli di istruzione (un ciclo di base, fino ai 13 o 14 anni e un ciclo secondario fino a 18 anni) o addirittura un ciclo unico, progressivo e comprensivo, dai 6 ai 16 o 17 anni. Ciò che doveva essere superato, in sostanza, era la distinzione del percorso scolastico in tre cicli separati fra loro e altamente selettivi. Così, nel giugno 1997 il Governo Prodi I presentò la ‘Legge Quadro in materia di riordino dei cicli dell’Istruzione’, con la quale venne stravolto il sistema scolastico italiano, poiché vi erano previsti solamente due cicli scolastici: il ciclo primario, di sei anni di durata e diviso in tre bienni, nei primi due aveva lo scopo di favorire lo sviluppo delle conoscenze e delle abilità di base e della dimensione relazionale, mente il terzo si prefiggeva il consolidamento, l’approfondimento e lo sviluppo delle conoscenze acquisite e la crescita di autonome capacità di studio, di elaborazione e di scelta coerenti con l’età degli alunni, mediante il graduale passaggio dalle grandi aree tematiche alle discipline. Anche il ciclo secondario durava sei anni e si articolava nelle grandi aree umanistica, scientifica, tecnica, tecnologica, artistica e musicale, con la funzione di consolidare e riorganizzare le capacità e le competenze acquisite nel ciclo primario, di arricchire la formazione culturale, umana e civile degli studenti sostenendoli nella progressiva assunzione di responsabilità, di offrire loro conoscenze e capacità adeguate all’accesso all’istruzione superiore universitaria e non universitaria, ovvero all’inserimento lavorativo. Il primo anno si caratterizzava per la prevalenza degli insegnamenti fondamentali, il secondo e il terzo per l’approfondimento degli insegnamenti comuni e per la progressiva estensione dell’area degli insegnamenti disciplinari specifici dell’indirizzo prescelto. Infine, il triennio finale riguardava gli insegnamenti specifici a ciascun indirizzo. Si accennava inoltre, alla formazione degli adulti, alla formazione continua e all’istruzione tecnica superiore. Anche Forza Italia e Alleanza nazionale presentarono proprie proposte di riforma della scuola: Forza Italia propose di rimodulare la scansione, dopo la scuola d’infanzia, in tre gradi scolastici: il primo grado, dai 6 ai 10 anni; il secondo, dai 10 ai 14; il terzo, dai 14 ai 18. Inoltre, si proponeva l’abolizione del valore legale del titolo di studio, della parità scolastica e della formazione professionale a partire dai 12 anni di età, si chiedeva una riforma complessiva della figura professionale dell’insegnante, nonché l’elevazione dell’obbligo scolastico a 16 anni. Il testo di Alleanza Nazionale prevedeva invece la ‘scansione’: scuola materna, scuola di base, scuola secondaria (biennio propedeutico agli studi del triennio), liceo unico con cinque indirizzi e istituto tecnico con molti indirizzi, insieme a una riforma dell’esame di maturità, l’autonomia della scuola, la parità scolastica e l’istituzione di un Ordine nazionale dei Docenti simile a quello dei medici, degli avvocati e dei giornalisti. Con la legge 10 dicembre 1997 n. 425 venne riformato l’esame di maturità, in cui il colloquio orale finale venne ampliato ad argomenti multidisciplinari. Il punteggio di valutazione passò dai sessantesimi ai centesimi e venne introdotto il credito formativo. Negli ultimi anni, abbiamo infine assistito ad altri tre tentativi di riforma: nel 2003, il ministro Moratti ha sancito il principio dell’autonomia scolastica soprattutto nell’amministrazione dei fondi pubblici. Tale iniziativa ha destato aspre critiche, poiché sostanzialmente favorisce la formazione di ‘conventicole’ amministrative ‘interne’ agli istituti, i quali, dopo la suddivisione dei fondi destinati ai distinti progetti didattici, spesso non sono in grado di intervenire direttamente sulle carenze strutturali degli edifici scolastici. In seguito, nel 2006, il ministro Fioroni ha stabilito la non ammissione degli studenti con debiti formativi non saldati, il ritorno alle commissioni miste e i rimandi estivi al posto dei debiti formativi. Nel 2008, infine, con il ministro Gelmini è stato cambiato il metodo di valutazione degli studenti, reintroducendo nelle scuole elementari il maestro ‘unico’ e i voti numerici, mentre in quelle superiori il voto in condotta che influisce sulla media, nonché un’infarinatura ‘general-generalista’ dell’educazione civica.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
EDITORE: Compact edizioni divisione di Phoenix associazione culturale