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28 Marzo 2024

Suor Emma Zordan: "Possiamo vedere il carcere con gli occhi del cuore"

di Raffaella Ugolini
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Suor Emma Zordan: "Possiamo vedere il carcere con gli occhi del cuore"

La religiosa delle Adoratrici del sangue di Cristo e volontaria della Croce rossa di Rebibbia, il noto carcere romano, si racconta in quest’intervista rilasciata a ‘Periodico italiano magazine’

Suor Emma Zordan
è una religiosa, da otto anni volontaria nell’istituto circondariale romano di Rebibbia, dove organizza laboratori di scrittura per i detenuti. Nel suo nuovo libro, ‘Non tutti sanno’, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, ha raccolo le angosce, le emozioni e le speranze dei reclusi durante la pandemia. Il testo si fregia della prefazione del cardinal Giuseppe Petrocchi, arcivescovo de L’Aquila. Sentirla parlare e leggere le sue parole, abbatte quel muro di indifferenza e diffidenza che contorna la realtà carceraria. Non tutti sanno, infatti, che il carcere è un’esperienza ‘trasformativa’ per chi la vive come detenuto, ma anche e soprattutto per chi lo vive tutti i giorni come docente, educatore, volontario. Immergersi nella realtà di chi soffre dopo aver perso il bene più prezioso, ossia la libertà, aiuta a comprendere l’importanza delle piccole cose, il valore di un sorriso e di una parola gentile, la possibilità di poter apprezzare l’odore di un fiore, di camminare a piedi nudi in riva al mare, all’importanza di saper scegliere sempre il bene. L’esperienza Covid ci ha reso tutti un po’ reclusi, forse più vicini all’esperienza terribile che le ‘persone detenute’ soffrono tutti i giorni, che non passano mai, scanditi da orari prefissati intervallati da piccoli momenti di ‘luce’, portata da chi, entrando dentro come educatore, docente o volontario, aiuta quel processo rieducativo personale, per il quale il ministero dell’Istruzione vanta un impegno costante. Ma ascoltiamo tutto questo direttamente dalle parole di Suor Emma.

Suor Emma Zordan, ci racconta la sua storia?

“Da otto anni, mi trovo a svolgere un servizio di volontariato nel carcere di Rebibbia. Sin da subito, ho sentito la realtà carceraria come la mia più bella missione. Ho svolto diversi ministeri con sempre tanto entusiasmo e creatività, ma quello del carcere è come il ‘Mal d’Africa’: ti prende, ti coinvolge e non ti lascia più. Quello del carcere è un servizio che richiede tanto ascolto, delicatezza, rispetto, sostegno personale, una presenza decisa e molto accogliente, non rigida, che non costruisca dogane, ma che si metta costantemente al servizio degli altri senza aspettarsi nulla. In carcere non servono grandi discorsi: occorre infondere fiducia, speranza per creare con la persona detenuta rapporti dai quali nascono, nel corso dei colloqui, discorsi amichevoli, molto profondi, veri. Così, ho pensato che tutta la realtà carceraria, fatta di ferite, rimpianti, nostalgie e solitudine, potesse essere raccolta in un libro. Insieme abbiamo cominciato a progettare e realizzare un ‘Laboratorio di scrittura creativa’. Stimolando creatività e fantasia, cerco di rendere la loro vita più umana e dignitosa. Sono racconti che i detenuti realizzano con serietà e tenacia, a dimostrazione che niente è perduto e che tutto è possibile. Al momento sono stati realizzati sei libri: ‘Oltre i muri verso l’orizzonte’; ‘Ultimi siamo tutti’; ‘L’amore dentro’; ‘Paura della libertà’; ‘Non siamo soli’. Quest’ultimo, intitolato ‘Non tutti sanno’, è stato edito, per la prima volta, dalla Lev (Libreria Editrice Vaticana)”.

Come si è avvicinata al mondo carcerario di Rebibbia?
“Nell’anno 2014, nel corso di una premiazione nel carcere romano di Rebibbia, per la prima volta ebbi l’occasione di entrare in un penitenziario. Rimasi colpita da un ragazzo che aveva all’incirca ventitré anni. Mi colpì perché era molto giovane, aveva l’aspetto di una persona buona. Era seduto accanto agli altri, solo, triste, quasi assente. Sentii dentro di me un forte desiderio di avvicinarmi e parlare con lui. In un primo momento, provai forte angoscia e paura. Paura che nasceva dalla consapevolezza che quella persona fosse lì a causa di un male commesso. Ma forse, nel profondo del mio cuore, avevo capito che si trattava di un male che qualsiasi persona può commettere, me compresa. Da quel primo occasionale incontro con L., un ragazzo fragile, dipendente dalle sostanze stupefacenti, bisognoso di tanto affetto, non mi lasciò più. Una volta, tornato a casa, debilitato, demotivato e senza più un punto di riferimento, vengo a saper che non ce l’aveva fatta. Eppure fu lui ad avermi convinta ad aprire la porta al volontariato carcerario”.

Quali sono i progetti che svolge o che ha svolto con i detenuti?
“Su suggerimento del direttore, il dottor Ottavio Casarano, si è iniziato a dar vita alla realizzazione di un Giornale del carcere ‘Liberi dentro’, che avrà come redattori gli stessi detenuti. Loro stessi hanno fissato l’obiettivo della pubblicazione  nel numero zero, uscito nell’ottobre 2021: “Essere un mezzo di comunicazione e di divulgazione tra due mondi paralleli ma (ancora) distanti”. Obiettivo principale non è solo quello, importantissimo, di far conoscere all’esterno la realtà del carcere, ma anche quello di saper raccontare, di riuscire a usare in modo chiaro e appropriato la parola e, quindi, di realizzare un ‘ponte’ tra il dentro e il fuori le sbarre. Per questo ho coinvolto in questo progetto un giornalista professionista, il vaticanista Roberto Monteforte, che ha messo al servizio della nostra piccola comunità le sue capacità. L’obiettivo è ambizioso, ma noi ce la mettiamo tutta. Con i pochi mezzi che il carcere consente e con quelli che siamo riusciti a dotarci, vorremmo realizzare un giornale che pubblica notizie vere, interviste e pareri autorevoli. Un lavoro incentrato fondamentalmente sulla condizione di vita in carcere, nei suoi aspetti positivi e negativi, soprattutto sulle sue criticità. Su proposta di Giuseppe Santilli, scenografo, costumista e regista, ci proponiamo di dare il via al progetto ‘Recitazione’ per i nostri detenuti di Rebibbia: un percorso didattico, che permetterà di apprendere metodi e tecniche fondamentali della recitazione, l’uso del linguaggio del corpo e dell’emissione della voce, lo studio sull’individuo e sul ruolo dell’attore nella società contemporanea. Nello specifico, verranno approfondite tutte le principali tecniche di recitazione  indispensabili per chiunque vorrà essere, anche se solo per una volta, ‘attore’. Un progetto che nasce allo scopo di aggregare e formare ragazzi alla conoscenza delle proprie potenzialità e a saper trarre frutto anche delle proprie fragilità. L'obiettivo del percorso avrà lo scopo di formare i ‘ragazzi-attori’, per poi riuscire a rappresentare un'opera teatrale completa”.

Ci racconta qualche esperienza di particolare interesse, che faccia comprendere la realtà di chi vive fuori dal carcere agli arresti domiciliari?
“In piena pandemia, durante il lockdown, squilla il telefono. A chiamarmi è un membro della comunità di Sant’Egidio. Mi supplica caldamente di raggiungere un detenuto agli arresti domiciliari, per aiutarlo con un po’ di viveri. Mi fornisce i dati utili per contattarlo e mettermi d’accordo. Erano giorni in cui mi sentivo quasi in colpa per ‘stare a casa’ e non far niente per chi versava nel bisogno. Capisco l’urgenza e, nonostante le restrizioni imposte dal governo, decido di uscire. Mi munisco di autocertificazione e, sotto una fastidiosa pioggia, mi sottopongo a una lunga fila per l’acquisto degli alimenti da portare in via Bruxelles, a Latina, dove risiedo. Descrivere la gioia che ha provato quel detenuto nel vedermi è impossibile da descrivere. Si sentiva sicuro, anche se poteva essere intercettato dalle forze dell’ordine che gli hanno vietato l’uscita dalla propria abitazione. In breve, ha sentito il bisogno di raccontare la sua vita che l’ha portato a delinquere. Nel salutarmi, mi ha confessato che la mattina precedente aveva pensato di farsi del male, ma il Signore, a cui crede e si rivolge, ha ascoltato la sua voce mandando me. Sono tornata più volte a visitarlo. E oggi, con i tanti che hanno riacquistato la libertà ho un bellissimo rapporto: li aiuto ad avere coraggio, a non ricadere in una vita che li ha marcati per sempre. Con soddisfazione, devo dire che con diversi ex detenuti ho un rapporto di amicizia, di condivisione delle loro gioie e anche sofferenze. Tra questi ne seguo uno in particolare, in detenzione domiciliare perché malato, che nel suo nuovo ‘carcere senza sbarre’ si sta prodigando a scrivere libri, racconti e poesie”.

Cosa potrebbe, secondo lei, ‘umanizzare’ maggiormente la situazione dei detenuti nell’immediato futuro?
“Servirebbe urgentemente una riforma che renda davvero il trattamento penitenziario “conforme a umanità”, assicurando “il rispetto della personalità e dignità della persona detenuta”. L’assunzione di questa consapevolezza può essere il vero ‘ponte’ per il futuro. Le pene devono tendere al senso di umanità e alla rieducazione del condannato. Devono essere umanizzate e non rimanere prevalentemente carcerarie. Siano pure pene afflittive, ma umane, che mettano davvero al centro la persona e che, effettivamente, possano puntare alla rieducazione. Penso al lavoro in ogni sua forma intramuraria ed esterna quale strumento di responsabilizzazione individuale e di reinserimento sociale dei condannati; all’utilizzo dei collegamenti audiovisivi sia ai fini processuali, nel rispetto del diritto di difesa, sia per favorire le relazioni con i familiari; a un costante rapporto con la società esterna; all’utilizzo dell’intero spazio del carcere per lo svolgimento di attività utili nella prospettiva del reinserimento sociale, dando un senso al tempo della pena. E penso, ancora, alle misure alternative alla detenzione, che ridurrebbero il sovraffollamento. Dobbiamo veramente fare in modo che la pena, quale che sia la forma di espiazione, abbia la capacità di reincludere, contribuendo a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato. ‘Reincludere’ vuol dire ridurre il rischio di ricaduta nel reato o nella criminalità organizzata. Per umanizzare il carcere, servirebbero molte altre riforme. E per noi volontari, meno burocrazia e rigidi controlli”.

Non_tutti_sanno_copertina.jpgLei ha scritto diversi libri, l’ultimo di particolare intensità, che s’intitola ‘Non tutti sanno’: ci racconti com'è nata l’idea editoriale in generale e il contenuto?
“Il libro ‘Non tutti sanno’ nasce dall'esigenza di rendere pubblica la realtà carceraria, attraverso l'esperienza di anni di lavoro del gruppo di scrittura creativa. Il mio desiderio è di far conoscere il più possibile un mondo sommerso, un pianeta sconosciuto. All’interno di ‘Non tutti sanno’, i detenuti si raccontano - con franchezza - senza ‘mentirsi’. Sono ricordi, rimpianti, consapevolezza della propria storia, dei propri errori elaborati in tempo di Covid e resi ancor più tristi dall’isolamento totale dai propri familiari. Non è stato facile per loro mettere nero su bianco E' stato possibile, nella misura in cui si sono sentiti accolti e ascoltai con attenzione vera e profonda. Il libro vuole aiutare a superare pregiudizi e indifferenza, riscoprendo l'umanità che c'è in ciascuna persona, dentro e fuori le sbarre. Questo nuovo lavoro esprime la grande domanda: ‘Quale sarà la vita di ciascuno di noi fuori da queste mura, una volta scontata la pena’? La società non perdona, respinge in modo brutale chi ha sbagliato. Ha paura, oppure è indifferente. L’ex detenuto che ha scontato tutto il suo debito con la giustizia, che ha fatto un percorso di rieducazione, di riabilitazione e di reinserimento nella società, è condannato, purtroppo, a portare per sempre sulla propria ‘pelle’ il marchio della galera. Per i cosiddetti benpensanti, chi si è macchiato di un grave reato, delinquente entra in carcere e delinquente ne esce, considerato per sempre un  avanzo di galera da far marcire dietro le sbarre. Gli si nega, in maniera disumana, il diritto a tornare a vivere”.

Cosa vorrebbe dire ai giovani?
“Ai giovani, prima di tutto, rivolgo l’invito a collaborare con i colleghi dell’istituto penale in termini di articoli per il nuovo libro ‘L’In-differenza’ e con la redazione del giornale ‘Liberi dentro’. L’aiuto reciproco potrebbe servire ad arricchire le proprie esperienze culturali e ad affrontare la vita con più resilienza e serenità, sapendo che altri vivono la stessa esperienza, spesso fatta di solitudine, di rimpianto, di scoraggiamento. Direi loro di impegnarsi nella conquista di un diploma che servirà ad inserirsi con competenza nel mondo del sociale. E ancora, a non aver timore di aprirsi al confronto, necessario a superare l’isolamento psicologico e i condizionamenti indotti dalla società, quindi alla critica costruttiva, utile a migliorare il proprio comportamento e il modo di pensare”.

Cosa vorrebbe dire, invece, ai ragazzi di Rebibbia con cui lavora tutti i giorni?
“Ai miei ragazzi di Rebibbia che seguono il laboratorio di scrittura creativa, dico di impegnarsi, di aprire il loro cuore, di far uscire le loro emozioni, di raccontare e raccontarsi. So che per loro non è facile esprimere il proprio intimo, il sentimento più profondo. C’è chi, al contrario, non resiste a contenere il proprio ego e propone scritti che pensa siano capolavori. Allora tocca a me discutere, correggere, incanalarli a stare sul tema, che spesso eludono per dare sfogo a un vissuto che imprigiona mente e cuore. Il mio è un rapporto fatto di rispetto, di comprensione,  di attesa, di pazienza, di grande affetto. Questo lo sanno e mi ripagano con la stessa misura e intensità. Quello che conta davvero è il filo umano che si costruisce tra noi. Sono valori che vanno condivisi. Più che dire io a loro di aprirsi agli altri, sono loro che premono per mettersi in contatto con altre realtà, dentro e fuori dal carcere. A conforto dei vostri ragazzi, i nostri mi sollecitano a chiedere a voi operatori uno scambio di esperienze, ma anche possibilmente di visite. Proviamoci…”.

Per finire, cosa ‘Non tutti sanno’?
“Quando si parla di carcere, la maggior parte della gente pensa che sia un luogo di peccatori, di persone senza sentimenti, prive di umanità, destinate a marcire dietro le sbarre. Nessuno si domanda veramente cosa e chi c’è li dentro. Prima di tutto, in carcere ci sono persone il cui ‘tarlo’ è il rimorso per il reato commesso, la vergogna per la perdita della propria identità, la sofferenza per aver rese vittime, con loro, le famiglie e resi orfani tanti figli. Struggente è il rimorso verso i propri figli, che vedono crescere soltanto durante l’ora dei colloqui. Alcuni, per disperazione, preferiscono farla finita per sempre dentro la propria grigia e fredda cella. In carcere c’è sofferenza, solitudine, abbandono, desiderio di rivincita, volontà e impegno di riappropriarsi della dignità perduta con il reato. Ci sono persone che lottano con la speranza di sapere che, un giorno, torneranno a essere liberi. Purtroppo, parlare di carcere non è facile: ci si scontra con mille pregiudizi e con una società chiusa al perdono, alla misericordia. A queste persone vanno le parole che papa Francesco rivolse al personale della polizia penitenziaria: “Perché giudicarli a priori? Io sono un peccatore come voi”. Purtroppo, lo scenario del carcere è molto lontano dalla realtà. Gli si nega tutto, anche il diritto di tornare a vivere. Da tener bene a mente è che, in carcere, la persona rimane persona con una sua identità. Sbaglia chi identifica il reato con la persona: il reato rimane reato fino allo sconto della pena, mentre la persona può cambiare e, in molti casi, cambia. C’è molta indifferenza verso il carcere: è come se fosse una discarica sociale, uno scarto che non serve a nessuno. Quanta capacità, professionalità e umanità c’è, invece, in queste persone redente dalla sofferenza. Per questo, il mio obiettivo è di far conoscere fuori le mura del carcere, attraverso incontri, interviste e presentazioni, la dura realtà delle persone ristrette”.
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