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29 Marzo 2024

Depeche Mode: quando le buone idee fanno la storia del rock

di Michele Di Muro - mdimuro@periodicoitalianomagazine.it
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Depeche Mode: quando le buone idee fanno la storia del rock

Ecco una sintetica ricostruzione di un percorso artistico lungo più di 30 anni per celebrare una band di assoluto rispetto, che ha sempre avuto il coraggio di innovare il proprio sound, influenzando l’intero panorama musicale mondiale

Recensiamo con favore il nuovo album dei Depeche Mode, intitolato ‘Spirit’, uscito anche in Italia da un paio di mesi. Si tratta di un lavoro che prolunga l’esperimento in stile ‘blues elettronico’ di questa band inglese, con ‘picchi’ di ulteriore maturazione rispetto al precedente ‘Delta Machine’, soprattutto in brani come ‘Scum’ e ‘Poorman’; qualche tuffo nel passato come in ‘So much love’; un rinnovato e credibile impegno politico in ‘Going backwards’ e ‘Where’s the revolution’. Per questo quattordicesimo album in studio, la band ha scelto di affidarsi alle sapienti mani del produttore James Ford (Arctic Monkeys; Florence & The Machine; The Last Shadow Puppets; Foals; Klaxons; Mumford & sons). Una scelta che potrebbe testimoniare l’intenzione di sperimentare nuove soluzioni, considerando che siamo di fronte ad artisti i quali, disco dopo disco, hanno incentrato gran parte dei loro sforzi proprio sulla ricerca sonora. Tale collaborazione ha forse nel brano ‘Cover me’, ripreso strumentalmente più avanti, il suo episodio più riuscito. Tra le composizioni più ispirate, la traccia si sviluppa per scaglioni in una progressiva evoluzione, dove l’iniziale atmosfera minimale di synth, voce e chitarra ‘iper-riverberata’, si arricchisce di elementi ritmici culminanti nel trip elettronico del finale. Più in generale, ‘Spirit’ è un album dal solido impianto compositivo, estremamente compatto dal punto di vista degli arrangiamenti, forse solamente un po’ troppo prolisso. Differentemente da altre band storiche, come per esempio gli U2, i Depeche Mode dimostrano di essere tutt’altro che stanchi e rifiutano di adagiarsi su soluzioni già consolidate, pur preservando intatta una cifra stilistica propria e immediatamente riconoscibile. I ragazzi di Basildon hanno saputo rinnovare continuamente il proprio ‘suond’ nel corso dei decenni e hanno resistito con grande professionalità alle fatiche del successo, rimanendo sulla cresta dell’onda quasi insospettabilmente rispetto ai tanti gruppi discesi dai ‘mitici’ anni ’80 del secolo scorso (e a lungo ritenuti più significativi....). Inizialmente sottostimati dalla critica per il loro stile ‘techno-dance’ considerato eccessivamente commerciale e ‘festaiolo’, i DM in realtà hanno ispirato tutti i generi musicali: il rock pop, la dance elettronica, il dark rock e persino l’heavy metal. Risulta pur vero che, nei primi anni, essi si presentarono sulla scena caratterizzandosi con la volontà di dimostrare come non fosse necessaria una strumentazione mastodontica, con chitarre costose, batterie roboanti e impianti di amplificazione alti come palazzi a 5 piani, per riuscire a produrre della buona musica. Inizialmente, furono catalogati insieme agli Human League e agli Yazoo: gruppi musicali protagonisti della svolta elettronica dei primissimi anni ’80, ma destinati a un target di pubblico estremamente giovanile, se non addirittura adolescenziale. Ma la Storia avrebbe presto dimostrato che le cose non stavano affatto così.

LA PRIMA FASE: IL SYNTH-POP
La storia dei Depeche Mode inizia con Andrew Fletcher, Martin Gore e Vince Clarke, futuro fondatore degli Yazoo e scopritore della magnifica voce di Alison Moyet, che ben presto si resero conto di aver bisogno di un vocalist importante, che permettesse loro un salto di qualità. Dopo qualche tempo, i tre individuarono Dave Gahan, un ragazzo dotato di ottimi polmoni e un volto da adolescente ‘nerd’: qualcuno in cui i giovanissimi potessero identificarsi facilmente. Nei locali e nei pub, Gahan si era specializzato in alcune cover di ‘Heroes’ di David Bowie, interpretate magnificamente. Nacque così il primo nucleo dei Depeche Mode, che trovò nei sintetizzatori di nuova generazione una ‘tecnica’ diversa per produrre musica originale e interessante. I ‘synth’ erano molto comodi da portare in giro e garantivano performances in grado di far guadagnare loro qualche primo ‘soldino’ nelle feste in discoteca in cui cominciarono a esibirsi. Una strumentazione pratica, quindi, che non aveva bisogno di amplificazione. In questa loro primissima fase, forte risultava l’influenza di Vince Clarke in sede di elaborazione dei testi. Clarke era rimasto affascinato della musica elettro/metal degli Omd (Orchestral Manoeuvres in the dark), un gruppo inglese di breve durata il quale, tuttavia, aveva lasciato tracce indelebili tra le giovani band inglesi che cercavano una propria ‘strada’. Tale svolta elettronica della musica pop, che oltre ai DM cominciò a proporre anche gli Abc, i Roxy Music e tutta una nuova ‘ondata’ di gruppi giovanili, fu molto criticata per aver sostanzialmente relegato in un angolo il fenomeno ‘dark’ proposto dai Cure e dai The Cult, insieme al rock raffinato, ma piuttosto cupo, degli Ultravox. In realtà, il ‘dark’ ha sempre sofferto, sin dai tempi della propria discendenza dal ‘punk’, di una sindrome all’autoghettizzazione in ‘nicchie’ di fedelissimi, numerosi ma musicalmente marginali, mentre gli Ultravox e i Cult, pur con le loro partiture sofisticate, non sempre riuscivano a centrare il loro obiettivo principale: quello di non risultare ‘respingenti’ al grande pubblico. I Depeche Mode, invece, sin dal primo singolo, ‘Dreaming on me’, riuscirono facilmente a entrare tra le prime 100 posizioni della classifica nazionale inglese delle vendite, dando la sensazione, soprattutto agli ambienti della produzione musicale di allora, che la semplicità individuata da questi 4 ragazzi di Basildon fosse molto promettente. E infatti, poco tempo dopo giunse l’epoca di ‘Just can get enough’, che entrò a far parte stabilmente della ‘top 10’ britannica: il primo ‘muro’ verso il successo era stato abbattuto. Anche l’album ‘Speak & Spell’ venne accolto con favore dal pubblico, mentre la critica ufficiale non apprezzava un ‘synth-pop’ che appariva semplicistico, talmente lieve e scanzonato da sembrare ‘casalingo’. In realtà, in pochi compresero che ‘Speak & Spell’ era una vera e propria dichiarazione d’intenti: gli anni ’80 sarebbero stati, per i Depeche Mode, il decennio della popolarità, la ‘base’ che avrebbe consentito loro le svolte successive. La ‘stoffa’ c’era tutta. E la critica fu presto costretta a ‘rimangiarsi’ i non teneri giudizi dei primi anni.

ESCE VINCE CLARKE, ARRIVA ALAN WILDER

L’improvviso ‘bagno’ di popolarità sembrò quasi disturbare Vince Clarke, fino a quel momento vero leader del gruppo. Un’autostrada verso il successo si era dischiusa, ma qualcosa ‘frullava’ nella mente del bravo musicista, il quale era forse alla ricerca di un percorso artistico più autonomo. Dunque, all’improvviso lasciò i DM per fondare una nuova band, gli Yazoo, che presentavano una vocalist eccellente come Alison Moyet. Anche al fine di dimostrare di non aver perso il proprio ‘fiuto’, Clarke si ritrovò nuovamente sull’onda del successo con gli Yazoo. Nel frattempo, Gahan, Fletcher e Gore, dopo aver pubblicato l’album ‘A broken frame’, proseguirono il percorso ‘synth-pop’ già intrapreso. L’album confermò la perplessità della critica musicale più severa, anche se alcune tracce, come per esempio ‘See you’ e ‘Live in silence’, lasciavano intravedere una vena romantica molto interessante. I ragazzi decisero allora di reclutare un ottimo arrangiatore con tendenze al ‘polistrumentismo’: Alan Wilder. Il nuovo elemento portò una certa disciplina: si lavorava in studio per molte ore al giorno. E l’etica complessiva doveva imperniarsi attorno a una logica di ‘squadra’. Fu subito evidente che il talento di Wilder sfociava nella pDepeche_Mode_2.jpgroduzione musicale. E i DM ne trassero immediatamente vantaggio. Il loro orizzonte musicale risultò sin da subito ampliato: per preparare il nuovo disco, i 4 decisero di trasferirsi a Berlino, una città che cominciava a emergere dal proprio lungo torpore post bellico, dovuto alla dolorosa divisione interna decisa dalle grandi potenze nel 1945. Nacque, così, il nuovo album: ‘Construction time again’, in cui Wilder inserì alcune innovative suggestioni provenienti dal rock ‘industriale’, in particolare del gruppo radicale tedesco degli Einstürzende Neubauten. In sostanza, nella costruzione dei brani furono inseriti alcuni ‘rumori’ cadenzati, che fornirono allo stile musicale della band una nuova sonorità, a mezza strada tra il dark e l’underground. Alcuni critici annotarono questa prima svolta: testi molto più profondi e pensati; musiche cariche di sperimentalismi interessanti. Brani come ‘Pipeline’ ed ‘Everything counts’ divennero vere e proprie ‘pietre miliari’ del loro percorso: il primo in quanto brano artisticamente coraggioso, ricco di suoni metallici; il secondo come vero e proprio marchio di fabbrica dei Depeche Mode. La promessa di un ritorno al successo era stata mantenuta. E anche bene, poiché la band cominciava a delineare un percorso evolutivo originale, destinato a portare ottimi frutti. Probabilmente, la maturazione era avvenuta anche perché i ragazzi avevano saputo aprire la propria mente a influenze esterne. Detto in estrema sintesi, la trasferta berlinese fu fondamentale.

SOME GREAT REWARDS
Entrati finalmente nel mondo della musica ‘adulta’, i Mode cominciarono a lavorare al loro quarto album: ‘Some great rewards’. Il primo brano estratto, ‘People are people’, ottenne un successo di livello mondiale, arrivando al 13esimo posto della classifica americana. Un esito lusinghiero, anche se Martin Gore, con gli occhi dell’oggi, ha ripudiato questo pezzo, giudicandolo “banale”, poiché imperniato attorno a un concetto superato di lotta di classe. In politica, si direbbe che ‘Some great rewards’, anche alla luce della seconda traccia estratta, ‘Master & servant’, sia stato un album fortemente ‘ideologico’, in cui la band sembrò optare per una scelta di campo molto netta e precisa. Eppure, i due brani ebbero un successo clamoroso. E l’album, nel suo complesso, presentava creazioni molto interessanti anche sotto il profilo sperimentale. Come, per esempio, ‘Blasphemous rumors’, che nel testo allude a tematiche civili e di libertà pubbliche più avanzate. La fama della band accrebbe a dismisura, anche se più di qualcuno, negli ambienti della critica, si attendeva qualcosa in più. Tuttavia, oggi possiamo dire che ‘Some great rewards’ fu un disco che ebbe il merito di aprire ai Depeche Mode ampi strati della società, europea e internazionale. Inoltre, stavano emergendo le grandi capacità di Alan Wilder come arrangiatore, nel proprio sforzo di ‘arrontodamento’ di alcuni temi musicali caratterizzati da una semplicità ancora troppo acerba e commerciale. Insomma, ‘Some great reward’ fu ancora un disco di transizione, come se i Depeche Mode sembrassero aver paura di perdere il successo acquisito. Ma fu comunque un lavoro importante per i suoi risultati di vendita, i quali garantirono al gruppo britannico una certa autonomia, sia artistica, sia finanziaria.

BLACK CELEBRATION
Una svolta importante, sotto il profilo artistico, sembrò avvenire con ‘Black celebration’. Si trattò di un disco sostanzialmente ‘dark’, ma in cui lo ‘scambio ferroviario’ verso il ‘binario’ di un rock più corposo e maturo sembrò finalmente ‘scattare’. Alcuni brani, come ‘New dress’, ‘A question of time’, ‘Striipped’ e la stessa ‘Black celebration’, cominciarono a delineare sonorità assai più sofisticate e solenni. Si trattò di un disco importante, uno dei più belli dei Depeche Mode, che segnalava una crescita esponenziale. Ancora la critica non fu dalla loro, soprattutto in Europa meridionale e in Italia. Ma in molti si dovettero ricredere: i DM stavano sviluppando un suono e un’evoluzione artistica importante. Anche gli spunti polemici di questi ultimi anni della band fanno spesso riferimento a questo ‘ritardo’, da parte della critica, nel comprendere la loro produzione. Ma 'Black Celebration' fu un disco importante, che gettò le basi per la perfezione che i DM riuscirono in seguito a raggiungere in ‘Violator’. La band stava riscattando gli anni giovanili dei successi facili e orecchiabili, caratterizzandosi con un’immagine più sofisticata e matura.

MUSICA PER LE MASSE
‘Music for the masses’ confermò la tendenza evolutiva dei Depeche Mode. Alan Wilder riuscì a compiere un vero e proprio capolavoro di arrangiamento con ‘Strangelove’, che come al solito risultò la traccia che più si distinse sul mercato, diffondendosi enormemente. Ma questo album cominciava a delineare pienamente un’avvenuta maturazione e un parziale ritorno verso gli strumenti tradizionali. Il titolo stesso del disco, ’Music for the masses’, ribaltava in senso ironico l’idea che non si trattasse affatto di un lavoro semplice e commerciale. Al contrario, i DM avevano ormai sposato un’altra ‘via’, assai più complessa e connotata da sonorità molto intense: come suol dirsi in quesi casi, i Mode stavano cominciando a fare assolutamente sul serio. E finalmente, anche la grande critica stava cominciando ad accorgersene.

VIOLATOR: L’ALBUM PERFETTO
Si giunse, pertanto, all’inizio degli anni ’90 e alla stesura del nuovo album: ‘Violator’. Un disco fantastico, perfetto, bellissimo: un’autentica ‘gemma’ musicale. La maturazione era ormai definitivamente avvenuta. Ogni brano è una storia entrata nella storia, frutto di un lavoro di squadra perfetto, collaborativo a ogni livello tra tutti i membri della band: la disciplina imposta da Alan Wilder aveva dato, finalmente, i suoi frutti. A cominciare da ‘Personal Jesus’, che denunciò al mondo intero una concezione utilitarista della religione, frutto di un sincretismo ambiguo, che fatica a fare i conti con la modernità, mentre ‘Enjoy the silence’ narra la bellissima storia di un re senza terra in cerca di un luogo in cui far riposare la propria anima da delusioni e passionalità inutili. La prima traccia, ‘Personal Jesus’, fu reinterpretata anche da Johnny Cash e Marilyn Manson; la seconda, vendette milioni di copie in tutto il mondo, aggiudicandosi persino un disco d’oro. Un successo strepitoso, indimenticabile. Ma ‘Violator’ è anche ben altro: è ‘Halo’, dedicata a una donna colpevole di aver ceduto a una relazione segreta, sottolineando come ciò, per gli uomini, sia ancora oggi un segno di virilità, mentre per le donne soprattutto una colpa; ed è ‘Clean’, un brano intenso, con arrangiamenti incredibili, quasi da colonna sonora, che allude al difficile percorso di uscita dal tunnel della droga; ed è anche ‘World in my eyes’, un richiamo sensuale a un amore completo, estatico, fisico e spirituale allo stesso tempo; ed è, infine, ‘Policy of truth’: un grido di ribellione contro le verità apparenti, che producono solamente nuove bugie e delusioni. A detta dei Pet shop boys: “Violator fu un disco molto bello, che ha alzato di molto il livello qualitativo della musica internazionale”.

LA LUNGA CRISI DEGLI ANNI ‘90
‘Songs of faith and devotion’ fu l’album della definitiva affermazione dei Depeche Mode sul panorama del rock internazionale, soprattutto per il ‘Devotional tour’: una tournée di concerti di dimensioni planetarie. Questo lavoro dei DM fu una sorta di ritorno al rock, che la fase ‘grunge’ di gruppi come Nirvana e altri avevano rilanciato ispirandosi al cosiddetto ‘Seattle sound’. Alan Wilder ne approfittò per reinserire la batteria nelle esibizioni del gruppo (suonandola personalmente), mentre Martin Gore si decise ad ‘affilare’ le chitarre. Insomma, l’album del 1993 è un po’ il simbolo di ciò che poteva essere e non è stato, per lo meno non del tutto. Alan Wilder ripete ancora oggi che “Walking in my shoes e In your room sono i nostri migliori brani di sempre...”. E forse, sotto un profilo schiettamente tecnico, ciò è probabilmente vero. Ma il gruppo iniziò a sfilacciarsi: Gahan aveva seri problemi di droga e, alla fine della torunée, finì in overdose; Gore aveva problemi con l’alcool; Fletcher cadde in depressione. Ritrovandosi da solo, Wilder non riuscì a mantenere il timone della ‘barca’ e non volle più spingere la ‘carretta’ per tutti. E se ne andò. L’uscita di Alan Wilder fu vissuta assai male dagli altri: problemi ce n’erano, ma l’affetto umano e la stima per la professionalità di Wilder era sincera da parte di tutti. Gahan promise di disintossicarsi. E lo fece, dopo aver superato addirittura un’esperienza di ‘pre-morte’. Ripresosi, tornò in studio per preparare il nuovo disco, ‘Ultra’, che li riportò al successo. In questa fase, i DM erano tornati a essere solamente in tre, ma il lavoro in studio fu di livello: alcuni brani sono, ancora oggi, delle autentiche ‘perle’. La traccia ‘It’s no good’ fu il pezzo del rilancio: una stroncatura del ‘machismo’ che gli anni del ‘riflusso’ avevano riproposto in termini edonistici. Il brano non fu subito compreso: spesso venne preso ‘alla lettera’ come un inno al narcisismo. L’ironia del pezzo non fu colta immediatamente, ma ciò dimostrava pienamente come i DM fossero ancora ‘in piedi’, pronti a lasciare nuovamente il loro ‘segno’. Il disco ‘Ultra’ fu l’unico a cui non fece seguito un tour promozionale di concerti, al fine di dare il tempo a Dave Gahan di riprendersi del tutto dalla disintossicazione. Ma il brutto momento poteva ormai considerarsi alle spalle.

GLI ANNI DUEMILA
Dopo la ‘vallata infernale’ attraversata negli anni ’90, giunse il nuovo millennio. E i DM si presentano puntualmente sul mercato con l’album ‘Exciter’. Si tratta di un lavoro assai più riflessivo del solito, caratterizzato da brani molto romantici, come per esempio ‘Freelove’, amatissima dai fans delle generazioni più recenti. Quel che si comprese dei Depeche Mode fu la loro capacità di dare alla luce, anche nei loro lavori di transizione, degli autentici ‘capolavori’. Ma i ragazzi di Basildon erano ormai in piena ripresa. Lo si comprese meglio con ‘Playng the angel’, del 2005, che li riportò in vetta alle classifiche mondiali. In merito a quest’ultimo lavoro, la critica si divise: secondo alcuni, rispetto a ‘Exciter’ i Depeche Mode sembravano tornare verso uno stile commerciale, a fini di vendita; secondo altri, invece, brani molto belli e sperimentali delineavano, come sempre, questo loro ‘doppio binario’ artistico, che anticipava tendenze, nuovi arrangiamenti e sonorità. Prevalse la seconda tesi: con brani come ‘Nothing's impossible’, il gruppo diede l’idea di essere nuovamente ‘padrone’ del proprio cammino artistico, svariando tra le complessità musicali più estreme, alternate con brani più semplici ma mai banali, come per esempio ‘Lilian’. Il resto è cronaca: gli ultimi tre lavori dei DM, ‘Sounds of the Universe’, ‘Delta Machine’ e ‘Spirit’, li hanno condotti a nuovi successi internazionali. Dopo la pubblicazione di ‘Sounds of the Universe’, la rivista musicale americana ‘Rolling Stones’ li aDepeche_Mode_3.jpgccusò di voler tornare alla musica elettronica degli anni ’80 “con la presunzione di chi ritiene di possedere una sorta di macchina del tempo...”. In effetti, un ritorno al pop elettronico sembrò evidente, soprattutto in brani come ‘Peace’. Ma la finalità era diversa: si trattava della nobilitazione definitiva della musica elettronica a cominciare dai ‘progenitori’ tedeschi dei Kraftwerk e di altri gruppi degli anni ’70 del secolo scorso. Infine, ‘Delta Machine’ e ‘Spirit’ mantengono in asse una nuova sofisticata equazione di blues elettronico, che ha regalato al pubblico brani estremamente innovativi come ‘Goodbye’, ‘Secret to the end’ e la raffinatissima ‘All that’s mine’. I Depeche Mode sono riusciti a mantenersi ad altissimi livelli, coronando una carriera lunga 37 anni, che ha accompagnato e conquistato 3 intere generazioni di fans. Milioni di persone che, con il loro affetto, testimoniano un percorso di tutto rispetto, paragonabile a quello di band ‘storiche’ del rock come gli U2, i Simple Minds e gli stessi Pink Floyd. Formazioni che hanno giuocato spesso con le sonorità elettroniche, a riprova della grande influenza che i Depeche Mode sono riusciti a esercitare e a imporre nell’intero panorama musicale mondiale.

I Depeche Mode saranno in Italia per tre date:
25 giugno: Roma, Stadio Olimpico
27 giugno: Milano, Stadio San Siro
29 giugno: Bologna, Stadio Dall'Ara
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