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25 Aprile 2024

Francesco Tascayali: “Inseguite il vostro sogno fino in fondo”

di Serena Di Giovanni
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Francesco Tascayali: “Inseguite il vostro sogno fino in fondo”

In esclusiva per ‘Periodico italiano magazine’, il giovane pianista italo-turco, nuovo ‘astro nascente’ della musica ‘minimalista’ contemporanea, si confessa: “Io non studio mai la musica: ricordo a memoria quel che mi piace e poi lo ripropongo nei miei concerti”

Classe 1991, Francesco Taskayali è un giovanissimo compositore e pianista italo-turco che rappresenta un ‘unicum’ sulla scena internazionale: ha cominciato a comporre musica per pianoforte a soli tredici anni e, nel marzo scorso, ha pubblicato già il suo terzo album, ‘Flying’, dopo i successi di ‘Emre’ (2010), ‘LeVent’ (2011) e due anni di tournée in tutto il mondo. Astro nascente della classica contemporanea sulla scena internazionale, con all’attivo ‘sold out’ a Parigi, Nairobi, Berlino, Istanbul e Caracas. Francesco Taskayali sarà in concerto a Roma dal 29 aprile al 1° maggio 2016, presso il Teatro ‘Brancaccino’. Ecco, qui di seguito, la nostra intervista:

Francesco Tascayali, come ti sei avvicinato alla musica e, soprattutto, al pianoforte?
“Ho iniziato a suonare il pianoforte quando avevo sette anni. Mio padre mi portava ogni settimana da un maestro, che mi ha messo per la prima volta davanti alla tastiera senza fogli, spartiti o iniziando dal solfeggio. Mi mise davanti alla tastiera e mi disse: “Inserisciti”. Lui suonava e mi ordinava: “Entra anche tu: suona”. Un approccio molto pratico, dunque. E’ una cosa che mi è rimasta a lungo: per molti anni, composizione non mi è mai stata insegnata. E’ una cosa che ho cominciato a capire solo verso gli 11 anni, cercando connessioni tra le note. Così, a 13 anni ho creato il mio primo brano, a 18 ho ‘chiuso’ il primo disco e, adesso, sono al quarto”.

Il tuo rapporto con Istanbul, città in cui hai vissuto e l’Italia, in particolare la città di Latina: puoi spiegarci questi due ‘poli’ della tua vita?
“Ho avuto la fortuna di vivere sei anni a Istanbul: una metropoli che, in realtà, con la Turchia c’entra poco. E’ quasi una città-Stato: un crocevia di culture ed etnie. Un posto dove vedi di tutto e tutto insieme. Una città piena di colori e di facce diverse. Istanbul mi ha ispirato tanto: ho scritto due dischi e qualcosa del terzo pensando a lei, o pensando a storie dedicate a Istanbul”.

Tipo?
“Tipo ‘Air terminal’, uno dei miei brani più ascoltati, che è stato scritto ricordando un addio avvenuto proprio all’aeroporto di Istanbul. Oppure ‘Renaissance’, un pezzo del mio ultimo lavoro, che nasce da un incontro durante l’attesa di un controllo sul Bosforo. In 5 ore, questa persona mi ha raccontato la sua vita: una storia particolare, che mi è rimasta dentro. Istanbul è fatta così: è una città molto libera, che sta cambiando tanto, questo è vero, anche per la sua situazione politica attuale”.

Perché? Tu cosa pensi della situazione politica attuale?
“Posso dire quel che percepisco a ‘pelle’: la Turchia che ho vissuto io nel 2008 era molto diversa da quella di adesso. Non vorrei essere negativo, ma oggi si respira un’aria molto più tesa. C’è ancora libertà, ma è come se questa fosse sotto attacco. La libertà d’informazione, per esempio, soprattutto dopo gli arresti avvenuti nella redazione del giornale più famoso della Turchia. C’è un clima teso: nel 2008, l’ultimo anno che ho trascorso a Istanbul, questa cosa si percepiva molto meno. Fondamentalmente, è dagli anni ’90 che la situazione sta cambiando, in Turchia”.

Siamo rimasti molto colpiti da alcune tue dichiarazioni dopo quanto avvenuto ai musei capitolini, in occasione della visita del premier iraniano, Rohani: qual è il tuo punto di vista intorno a quella vicenda?
“Io sto un po’ dalla parte di Rohani, che è arrivato e si è trovato tutto già fatto. Il vero mistero, alla fine, è che non si sa bene chi ha coperto queste statue: una cosa molto italiana…”.

Ma cosa hai fatto tu, quel giorno? Ricordiamolo.
“In realtà, io stavo pranzando e ho cercato un modo per dire la mia sulla questione. Sai quando ti si accende una ‘lampadina’? Ho smesso di pranzare, ho preso una scatola, me la sono messa in testa e mi sono messo a suonare il pianoforte. Ho fatto una ‘diretta’ così ed è stata una cosa piuttosto ‘vista’, fatta per prendersi un po’ in giro. In Italia, è la cosa migliore per dire la propria: buttarla sul ridere”.

Una domanda che ti avranno già posto in molti: qual è il tuo compositore o musicista preferito? Hai un modello al quale ti sei ispirato, almeno inizialmente?
“Io ho iniziato con le colonne sonore. E sarebbero tanti i compositori da citare. Comunque sia, il mio è un genere che parte da Einaudi e Nyman: è iniziato tutto da lì. Fino a quando avevo 13 anni, il mio unico riferimento era Nyman e, quindi, mi era ‘uscito’ un qualcosa di quel genere (il ‘minimalismo’, ndr). Ma proprio in quegli anni è ‘esploso’ Allevi e allora mi sono detto: “No, caspita! C’ero quasi… Ma allora è quello il genere che può piacere tanto”! Quando lo suonavo io, gli unici riferimenti ‘veri’ erano le colonne sonore. Invece, poi c’è stato lo ‘scoppio’ di Allevi, in cui si è delineato esattamente cos’era quel tipo di musica. Ed è nato un genere (il minimalismo contemporaneo, ndr), almeno qui in Italia. Prima c’erano solo Einaudi e Reich. Poi, devo dire che il mio pianista preferito, in realtà, è Keith Jarret, poiché ha una capacità d’improvvisazione invidiabile, che non riuscirò mai a raggiungere”.    

Come nascono i tuoi brani: c’è uno studio a priori, oppure è tutta ispirazione intuitiva?
“Devo fare una premessa: io non studio mai la musica. Sin da quando ho 11 anni, ricordo tutto a memoria e poi lo ripropongo nei concerti. Quindi, l’approccio reale non è scritto: mi metto davanti alla tastiera e suono”.

Un approccio ‘empatico’, dunque?

“Beh, sì: se non hai un’emozione diventi molto tecnico, ovvero tendi a trasmettere emozioni tramite ‘tecnicismi’. Quando ci metti l’emozione, invece, essa è quel qualcosa in più che ti fa capire quanto è grande la musica, secondo me. Fondamentalmente, il momento migliore, almeno per me, è il ‘dopo-cena’, alla sera: a casa non c’è nessuno, ti metti al piano, suoni e ti fai ispirare da quello che senti. Poi, nel pianoforte c’è sempre un ‘filo’ che ti collega con quel che più ti piace. E quel che ti piace, poi lo senti e te lo ricordi. E un po’ come per gli scrittori, i quali scrivendo divengono ciò che sono”.

Un qualcosa che in molti non sanno: siamo quasi colleghi, poiché tu ti sei occupato, in passato, di inchieste giornalistiche…
“Sì, è quello che definisco il mio ‘hobby’…”

E sei anche un videomaker, vero?
“Sì: è una storia curiosa, poiché ho iniziato con la cronaca ‘nera’, fondamentalmente. Avevo questa fotocamera e mi sono creato, come dire, delle persone che ti avvertono quando succede qualcosa: delle ‘fonti’, insomma. Prendevo la ‘macchina’ e correvo a fare dei servizi giornalistici. E così ho fatto 300-400 servizi, tutti nella zona Roma sud-Pontina. Alcuni sono stati ‘ripresi’ da organi di stampa nazionali. Per esempio, ci fu la storia di un canile allagato durante un alluvione, che fu ripreso da ‘Repubblica’ e ‘Il fatto quotidiano’. Adesso, insieme a un collega facciamo delle inchieste, soprattutto in materia ambientale. In questo momento, stiamo conducendo un’indagine sull’inquinamento delle falde acquifere nei pressi di Ninfa. Anche se, quando sei il primo che vuole documentare cose di questo tipo, tutto diviene complicatissimo: se ci sono dei precedenti è più facile convincere le persone e far loro capire un problema. Quando, invece, non c’è alcun ‘campanello d’allarme’ ti dicono: “Sì, però forse non è così”. Quindi, adesso abbiamo avuto qualche difficoltà e l’abbiamo lasciata a metà…”.

In relazione a questo, il futuro come lo vedi?
“Futuro non ne vedo”.

Ma vuoi fare il giornalista o il musicista?
“Per lo più, nel fare il giornalista mi diverto: mi piace. E fondamentalmente, nella vita faccio solo cose che mi piacciono. Però, mi vedo pianista: è il sogno della mia vita e intendo continuare su questa strada. Quest’anno è cominciato molto bene: potrebbe essere l’anno del ‘timing point’. Mi è ‘uscita’ Los Angeles a giugno e, probabilmente, a settembre suonerò in Canada. E’ un anno, secondo me, interessante”.

Parlando di tournée, qual è il ricordo più bello legato a un tuo concerto?
“In realtà, quando mi chiedono di una città, uno si aspetta che dica Londra o una grande capitale. Invece, ho avuto la fortuna di suonare in Paesi del terzo mondo dove la musica non è una cosa così scontata, da ascoltare o da ricevere. Qui da noi siamo quasi, passatemi il termine, ‘rincoglioniti’, poiché siamo circondati di ‘tanto’ e abbiamo perso la capacità di discernere, persino la curiosità di ascoltare, poiché siamo convinti che di musica ve ne sia in abbondanza. Questa cosa, in positivo, l’ho vissuta in Etiopia e in Kenia, ad Addis Abeba e a Nairobi. Ricordo che a Nairobi erano finiti i posti e c’erano persone sedute persino intorno al pianoforte. Ed è stato bellissimo, perché sapevo che stavo facendo loro veramente un regalo, un dono. Dopo il concerto, tutta la sala mi ha stretto la mano: tutta. Sembrava quasi fossero degli amici che uscivano dal salotto di casa. E’ stato molto bello. Dopo mi hanno detto che avevo dato loro ispirazione per continuare a studiare musica. C’è fame anche di cultura, in certi posti del mondo e non sono così ‘rincoglioniti’ come noi occidentali…”.

E in Italia?
“In Italia, sarò molto banale, ma c’è una situazione da cui non si emerge, forse per mancanza di meritocrazia. Io dico sempre che il web, Facebook, Twitter e le altre piattaforme americane, guarda caso sono meritocratiche: se una cosa è ‘buona’, ‘tira’ e va avanti. Probabilmente, se il web lo avessero inventato gli italiani risulterebbe riempito da cugini, figli e parenti. In Italia, la situazione è quella che conosciamo tutti: molto difficile. Ci sono organizzazioni che ‘brillano’ per le loro capacità nel riportare il suono a livelli nuovi, ma nulla di più…”.

La tua difficoltà, in Italia, qual è stata?
“La mia fortuna è stata quella di andare ‘fuori’, per poi tornare con uno ’straccio’ di curriculum. Costruirmelo in Italia sarebbe stato impossibile: qui, nessuno ti dà fiducia”.

Ma qual è il problema che ti ha impedito di esprimerti come hai fatto brillantemente a Caracas, o in altre parti del mondo?
“Io credo, innanzitutto, che quando ti rivolgi a un’istituzione o a un teatro, inserirsi nelle programmazioni è molto difficile, a meno che non hai finalità economiche sicure. Ne parlavo con un organizzatore di concerti di buon livello, il quale mi ha spiegato il fatto che gli artisti famosi non permettono ad altri artisti di ‘aprire’ i loro concerti. Addirittura, si starebbe creando una sorta di mercato ‘protetto’. Non lo so: è tutto molto ‘italiano’. Ma la speranza è l’ultima a morire”.

Cosa pensi di questi talent show che ci vengono propinati?
“Quei programmi non li guardo. Tuttavia, l’ultimo Sanremo è stato una grande sorpresa, perché non stavo seguendo alcuna serata e mi ero perso anche quella in cui aveva suonato Ezio Bosso. Ho saputo solamente qualche ora dopo di Ezio e del suo concerto. Allora, ho fatto la cosa più spontanea che potevo fare: prendere il video dal ‘replay’ e pubblicarlo su Facebook. Evidentemente, quella era musica valida, poiché il video che ho ‘postato’ è stato visto da più di 10 milioni di persone in tutto il mondo”.

Quindi, pensi che il pubblico, alla fine, selezioni?
“Quando le cose valgono, queste funzionano. E quello di Bosso è stato un bel momento. Io lo seguivo da tanti anni e lui, una volta, è stato molto gentile: mi ha scritto in posta elettronica, dopo un periodo di silenzio, che magari un giorno avremmo fatto una cosa a 4 mani. Ma io lo avevo già scoperto sin dai tempi in cui facevo ancora le scuole medie. Quando ho visto il film ‘Io non ho paura’, la cui colonna sonora è sua, sin da allora mi è rimasto come ‘mentore’, poiché c’era questo contrabbasso e il violoncello. Lui, infatti, è un virtuoso di archi, in realtà, che si ‘presta’ a fare il pianista. Poi, ha avuto un incidente alla mano e ha dovuto ‘mollare’. Insomma, Bosso a parte, certi programmi non li guardo e forse faccio male, perché ogni tanto qualcosa emerge. Se volete che approfondisca ancora di più, vi dirò che, spesso, i talent sono un’illusione per gli artisti che ci vanno. Utilizzando le parole di un grande ‘paroliere’, Alberto Salerno, marito di Mara Maionchi (anche se lui dice che "è Mara a essere la moglie di Alberto Salerno…") una volta si è espresso così: “Ragazzi, fuori fa veramente freddo. Non pensate di essere ‘arrivati’ facendo un talent, perché è tv e non musica…”. Insomma, non si tratta di un punto di arrivo, mentre invece la spettacolarizzazione lo fa sembrare tale: ti fa pensare che hai vinto, che ormai ti sei affermato…”.

A chi volesse seguire il tuo percorso, cosa suggeriresti?
“Più che fornire un consiglio artistico, io ho notato che, in Italia, chi ha un sogno, spesso non lo persegue fino in fondo, perché si ha paura di ‘fallire’, o perché si temono tante cose. Gli americani queste cose non ce l’hanno. In particolare, la paura di fallire loro la accettano. Alcuni la mettono anche nel curriculum: hanno tentato una cosa, ma hanno fallito. Loro hanno questa voglia, la capacità di ‘rilanciarsi’, anche senza sapere come potrà andare, poiché qualsiasi investimento ha un rischio. Tuttavia, la vita e una. Dunque, tanto vale rischiare…”.

 


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
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