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11 Ottobre 2024

Tagliare la ‘testa’ alla spesa pubblica

di Vittorio Lussana
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Tagliare la ‘testa’ alla spesa pubblica

Alla radice della nostra pesante stagnazione economica vi è una specifica arretratezza culturale e di strumenti, una crisi di produttività e una più o meno consapevole acquiescenza della nostra classe politica, la quale, in tale arretratezza, ci si è sempre trovata benissimo.

Questa volta devo dirmi abbastanza d’accordo, almeno in parte, con Emma Marcegaglia, seppur non con riferimento diretto ai sindacati: siccome in molti enti pubblici c’è un sacco di gente che lavora – lo dico senza mezzi termini – col ‘culo’, il Governo Monti potrebbe anche decidersi a prendere in considerazione alcune idee per snellire la pubblica amministrazione e renderla più efficiente. Alla radice della nostra pesante stagnazione economica, infatti, vi è una specifica arretratezza culturale e di strumenti, una crisi di produttività e una più o meno consapevole acquiescenza della nostra classe politica, la quale, in tale arretratezza, ci si è sempre trovata benissimo. Ciò, naturalmente, ha finito col tradursi in tasse troppo elevate, che tali rimarranno sin tanto che la pubblica amministrazione non sarà resa meno costosa. Si pensi, per esempio, al fatto clamoroso di un apparato amministrativo dello Stato che, di fatto, viene gestito senza una contabilità degna di questo nome, senza cioè un budget o un ‘tetto’ preciso di spesa, dunque senza alcuna responsabilità intorno a dei risultati realmente ‘misurabili’, privando i cittadini del diritto di poter votare i propri rappresentanti sapendo se abbiano effettivamente gestito bene o male il danaro della collettività. Si pensi, inoltre, al fatto, altrettanto clamoroso, che la rivoluzione informatica, la quale ha avuto inizio già da alcuni decenni, ancora non ha prodotto alcun risultato quantomeno sensibile o rilevante, in termini di efficienza e produttività. E’ pertanto ragionevole ipotizzare un calo degli organici della pubblica amministrazione di almeno un terzo, in presenza di una struttura informatica di rete resa, per lo meno, dignitosa. Ciò a prima vista sembra inaccettabile, sia politicamente, sia sindacalmente, anche quando appare a tutti evidente che il corrispondente calo delle tasse porterebbe a una crescita tale che compenserebbe di molto, nel medio-lungo periodo, gli svantaggi iniziali. Nessuno ha notato, in questi ultimi anni, che il premio Nobel per l’Economia è quasi sempre stato assegnato a studiosi che si sono distinti analizzando “il disegno del meccanismo”, ovvero la questione di come costruire regole e istituzioni che incentivino gli individui a rispettarle e a farle funzionare, al fine di ottenere uno sviluppo più elevato e, quindi, più ricchezza e benessere per tutti. Qual è il punto che gli economisti, quelli veramente seri, sottolineano? Che buone regole e buone istituzioni sono quelle che fanno coincidere gli interessi individuali con quelli collettivi. Regole e istituzioni che funzionano bene rendono la vita più facile ai cittadini, più ordinata e meno rischiosa, fanno diventare conveniente pagare le tasse, rispettare i divieti di sosta, non imbrattare i luoghi pubblici, gestire il danaro collettivo senza sperperarlo. C’è insomma la necessità, per il nostro Paese, di modernizzare la nostra cultura civica e istituzionale. Il fulcro teorico del dibattito sin qui sviluppatosi deve abbandonare le mere generalizzazioni astratte, al fine di convergere verso la ‘strutturazione’ di una vera ‘nuova cultura’, in grado di delineare un’idea innovativa di società. Una riflessione che potrebbe prendere spunto dal tema di un coraggioso superamento del maligno intreccio tra interessi pubblici e privati esistente nel nostro Paese, una commistione che ha trasformato imprese, banche, enti pubblici, università e organi di informazione in veri e propri ‘accampamenti lottizzati’. Ciò rappresenta, con assoluta evidenza, la causa primaria della ‘cattiva’ politica a cui abbiamo assistito per troppi anni. In secondo luogo, è stato speso molto tempo e ingegno, in passato, nel tentare di capire in quale modo riformare le nostre istituzioni: tutte idee lodevoli, che tuttavia possono tornare al centro di una riflessione più concreta solamente se si riuscirà a trasmettere agli italiani una nuova capacità collettiva di governare il Paese già nell’ordinaria amministrazione. La qual cosa significa: dimostrare il coraggio di tagliare la spesa pubblica, al fine di studiare un nuovo assetto complessivo del nostro sistema di welfare. Come già esposto in passato, l’idea sarebbe quella di una riduzione del personale della pubblica amministrazione del 3% annuo. Una decisione di questo genere comporterebbe, per lo Stato, un risparmio di circa 25 miliardi di euro l’anno. La questione, infatti, non si aggira intorno a un’idea di riduzione della spesa pubblica in quanto valore assoluto, bensì di una sua crescita mantenuta al di sotto del reddito. In termini strettamente finanziari, laddove lo Stato è costretto a intermediare il reddito nazionale con la spesa corrente non può verificarsi alcun effetto ‘moltiplicatore’, ma solamente una redistribuzione di danaro che si rivela sostanzialmente sottratto a possibili interventi di sostegno all’economia reale. Dovendo inoltre affrontare una prospettiva di forte decentramento delle funzioni statali, quel che si rischia veramente è infatti la possibilità di future interpretazioni ‘distorte’ del ‘policentrismo decisionale’ italiano, che potrebbero ridurre ulteriormente la produttività dell’amministrazione pubblica generando più danno che altro. Viceversa, una crescita dell’occupazione innescata da un più veloce aumento del reddito conseguente a sua volta a una riduzione delle tasse - possibile solamente per il tramite di un calo ‘sistemico’ della spesa pubblica - darebbe un risultato 4 volte maggiore rispetto alla perdita occupazionale dettata dall’ipotesi di partenza. Ciò sulla base di un’elasticità media dell’occupazione, rispetto al reddito, pari a 0.3, ovvero sostanzialmente identica a quella registrata in Italia negli ultimi anni. Con tassi di crescita della spesa come quelli attuali, non lontani dal 5% annuo, diviene francamente impossibile riuscire a mantenere sotto controllo il bilancio pubblico. Pertanto, se si vuole cominciare veramente a realizzare una forte riduzione di tasse e balzelli alle imprese non v’è altra alternativa se non quella di un blocco della crescita della spesa corrente al netto degli interessi, operazione sino a oggi tentata senza alcuna programmazione finanziaria e sulla base di emergenze del momento. Una spesa pubblica improduttiva e regolarmente fuori controllo non ci permette di abbattere il debito nazionale, impedisce quegli interventi strutturali sulla spesa corrente che avrebbero effetti di crescita significativi sulla nostra produttività media nazionale, rende impossibile andare a intaccare significativamente la disoccupazione giovanile. Con un debito pubblico il quale, tenendo conto del passivo non contabilizzato, supera ormai il centoventi per cento del reddito nazionale, una decisione di siffatto genere è la sola politica praticabile e in grado di avviare un nuovo ciclo di sviluppo che potrebbe riflettersi sull’intero sistema macroeconomico e produttivo italiano. La versione italiana del ‘welfare state’ è sempre stata finanziata attraverso il versamento di contribuzioni previdenziali che producono effetti di redistribuzione favorevoli ai ceti medio-alti. Ciò è avvenuto a causa di una cronica disparità di trattamento nei prelievi tra lavoratori dipendenti, liberi professionisti, commercianti, artigiani e altre categorie. Ed ecco per quale motivo siamo spesso costretti a prendere atto che, sulla ‘carta’, esisterebbero imprenditori, commercianti e artigiani che dalla propria attività ricavano, nell’arco di un anno, un reddito inferiore a quello di una maestra delle scuole elementari. La stessa fiscalizzazione degli oneri sociali, a cui si è ricorsi in numerose manovre finanziarie del passato, raramente ha rappresentato una metodologia di sgravio in grado di trasferire quote sensibili di reddito verso i ceti subalterni. E ciò rappresenta un demerito che spetta a tutti i Governi che si sono succeduti dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso sino a oggi. Ciò è avvenuto per l’equivoco determinato da una cattiva interpretazione di quelle politiche di sviluppo economico che avrebbero dovuto accelerare il cammino della collettività verso un’economia sociale di mercato la quale, anziché proletarizzare il ceto-medio o immettere elementi di pirateria finanziaria nel sistema, doveva semplicemente portare al centro del sistema socioeconomico il consumatore. Perché sbagliano di grosso coloro che credono che il capitalismo stia crollando sotto i colpi della globalizzazione: è una visione apocalittica, questa, figlia di sovrastrutture ideologiche novecentesche. Il sistema capitalistico, preso nel suo complesso, avanza per fasi cicliche che debbono essere comprese e valutate per tempo, poiché il sistema, anche nei suoi momenti di depressione, contiene in sé le risposte per aprirsi verso nuove fasi espansive. Oggi, per poter far questo e riuscire a emergere dal tunnel in cui il capitalismo è finito col ‘cacciarsi’ bisogna soprattutto comprendere che la globalizzazione sta portando a una standardizzazione che si indirizza verso la ‘personalizzazione’ dell’offerta, condannando al tramonto il costoso stato sociale messo in piedi nel dopoguerra europeo, nonché profilando un futuro ‘low cost’ anche per i servizi pubblici.

 

 

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Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
EDITORE: Compact edizioni divisione di Phoenix associazione culturale