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11 Ottobre 2024

Una nuova era è alle porte: religione e politica lo capiscano

di Vittorio Lussana
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Una nuova era è alle porte: religione e politica lo capiscano

Qualche settimana fa, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, ha promesso che entro l’anno 2012 verrà istituito, nel grande capoluogo di regione lombardo, un registro delle ‘unioni civili’. Si tratta di uno strumento puramente simbolico, il quale potrà tuttavia permettere a enti locali e istituzioni di cominciare a proporre una serie di progetti e di servizi destinati alle cosiddette ‘coppie di fatto’. L’occasione appare inoltre opportuna per tornare a riflettere sul tipo di società che si intende delineare per il nostro prossimo futuro. Uno degli scogli principali alla messa in campo di tutta una serie di iniziative di questo genere, innanzitutto proviene dalla classe politica italiana, la quale, in questi ultimi decenni, non ha saputo rinnovare se stessa né sul fronte dell’impostazione civica, né su quello più propriamente generazionale: un ceto dirigente che ha rinchiuso se stesso in una sorta di fortilizio assediato dall’opinione pubblica non soltanto per i propri privilegi, ma anche - e questa è la questione che i politici non sembrano riuscire a far propria - per l’evidente incapacità di individuare, proporre e progettare un nuovo tipo di organizzazione sociale. Ciò avviene a causa di una ragione ben precisa: per più di tre secoli, la società occidentale ha creduto che si potesse umanizzare l’uomo mediante l’educazione, la cultura e la politica. Ebbene: dobbiamo ormai accettare il fatto che tale tentativo è giunto a un clamoroso fallimento. La vera questione diviene oggi quella di una rielaborazione, lungimirante e di prospettiva, di un nuovo modello di esistenza per la collettività. E’ dura da far digerire ai nostri politici, immersi come sono nella loro mentalità ottocentesca. La ‘querelle’ intorno alle unioni di fatto non è una questione da sottovalutare, poiché pone interrogativi profondi su chi siamo e su cosa vogliamo diventare sotto il profilo più strettamente socio-culturale. L’intransigenza dei cattolici muove da motivazioni estremamente chiare: la posta in gioco è il ruolo della Chiesa in quanto unica istituzione di orientamento dell’etica pubblica, nonostante non sia più molto semplice farsi portatori di verità irriducibili in tempi di incertezze profonde. Dopo le grandi mete filosofiche indicate dai pensatori più noti e più letti – Rousseau, Hegel, Marx, Comte, Mill e lo stesso Nietzsche – anche la forza di penetrazione del pensiero laico si è notevolmente indebolita. Il XX secolo si è solo limitato a mettere in pratica le idee di quello che lo aveva preceduto. E oggi, queste concezioni sembrano appartenere a un passato ormai remoto. Dunque, anche il pensiero laico è determinato dalla mancanza di un grande progetto per l’uomo, come invece accadde all’epoca dell’umanesimo, quando seppe proporre che esso divenisse l’artefice della propria vita e di se stesso; oppure nell’illuminismo, quando espresse un’ideale di libertà e di eguaglianza universale; oppure ancora nel XIX secolo, quando seppe indicare nel superamento dell’alienazione e dello sfruttamento il grande obiettivo dell’intera umanità. Allo stato attuale, la laicità è largamente diffusa, ma è divenuta un pensiero comune, una sequenza di ovvietà. Mentre fino a pochi decenni fa si poteva parlare di un cristianesimo ‘pigro’ nel senso di una religiosità ritualista e praticata senza molta convinzione, oggi siamo costretti a denunciare una laicità superficiale e conformista, divisa in famiglie e ‘famigliole’ che si considerano presuntuosamente delle elìtes senza riuscire a produrre nulla di più di uno scontato provincialismo oligarchico. Ma è proprio su tale versante che il pensiero laico deve ricominciare a porre interrogativi pratici. L’istituzionalizzazione delle coppie di fatto, introducendo soluzioni diversificate di convivenza, comporterebbe conseguenze disastrose, in termini di coesione sociale? Per rispondere a questo interrogativo diviene essenziale precisare cosa si intende allorquando si parla di famiglia tradizionale. Innanzitutto, non si può affermare che il modello di famiglia ‘mononucleare’, ovverosia quello composto da un uomo, una donna e dai loro figli, rappresenti il vero modello ‘tradizionale’ di famiglia. Anzi, è vero l’esatto contrario: se la coppia composta da un uomo e una donna è stata condizione imprescindibile per la riproduzione, essa nel passato non si è mai identificata semplicemente con questa singola funzione. La famiglia cosiddetta ‘tradizionale’ era infatti quella contadina o nomade dei secoli addietro, cioè quella ‘patriarcale’. Essa rappresentava l’orizzonte entro il quale si svolgeva, quasi completamente, la vita dell’individuo o della coppia, decidendo ogni cosa, persino la scelta del futuro coniuge. Essa, peraltro, garantiva identità, assistenza, sicurezza, ma di certo non rappresenta un modello sociologico da rimpiangere, poiché essa cristallizzava un’organizzazione sociale oppressiva, in cui il potere maschile era totale e poteva giungere all’omicidio o all’incesto, secondo una concezione della giustizia arcaica e crudele. Pertanto, la famiglia mononucleare è stata uno degli effetti dello sviluppo economico e proviene direttamente dall’industrializzazione e dall’inurbamento, mentre molte altre funzioni della famiglia tradizionale sono state assunte dallo Stato. La dissoluzione delle vecchie gerarchie di sangue ha influito profondamente sull’evoluzione dell’etica sociale collettiva: se una coppia, un tempo, viveva all’interno di una grande famiglia patriarcale, tutti i risvolti del proprio rapporto - anche quelli più intimi - possedevano risvolti pubblici. Ma quando quel contesto venne finalmente meno, il rapporto di coppia divenne un fatto soggettivo e privato, per il quale assai minori sono divenute le necessità di una formalizzazione ufficiale e pubblica come quella del matrimonio. L’odierna organizzazione sociale favorisce la privatizzazione, la soggettività, la sperimentazione dei rapporti. Ma tali condizioni sono quelle che meno favoriscono la stabilità della famiglia, poiché la società attuale, in realtà, è predisposta soprattutto per quei singoli individui che decidono di vivere una socialità ‘fluida’. E ciò vale tanto di più oggi che la precarizzazione del lavoro delle generazioni più giovani non favorisce uno sviluppo armonioso o la stabilizzazione stessa delle relazioni affettive. La famiglia, in quanto istituzione, in verità vive una crisi profondissima: i giovani che convivono con i propri genitori per lungo tempo mostrano di contare su di essa, ma anche di non riuscire a crearne una nuova. La famiglia è dunque chiamata, oggi, a fornire risposte a molti problemi che proprio non riesce a risolvere: precarietà del lavoro, assistenza, salute. E il più delle volte svolge una funzione di ‘camera di decompressione’, in cui vengono a stemperarsi problemi e inadeguatezze: vista da lontano, essa appare come un rifugio sicuro, ma osservata da vicino, ci si accorge che rappresenta un microcosmo di infelicità, di conflitti, di tensioni tanto più acute quanto più compresse tra abitudini e ipocrisie. La famiglia non è affatto un punto di forza, bensì una somma di debolezze. La sua stessa definizione attuale è ben diversa: essa è un organismo formato da distinti individui con una propria durata temporale. Essa riesce a resistere sin quando forte rimane la memoria e gli effetti delle azioni di un proprio capostipite, oppure fino a quando vi è un patrimonio da gestire. Ma quelle famiglie che non possono identificarsi con le gesta memorabili dei propri antenati o che non hanno ereditato grandi ricchezze da amministrare, tendono ad avere un’identità assai meno marcata nel tempo. Addirittura, possiamo concludere che la famiglia non costituisca nemmeno un beneficio per la coesione sociale, poiché in molti casi essa si rivela ‘egoisticamente’, svolgendo funzioni antieducative e antisociali: non è affatto una coincidenza che le grandi organizzazioni criminali come la mafia siano organizzate in famiglie. Egoismo familiare e individualismo antisociale coesistono e si potenziano l’un l’altro in quanto forma di stagnazione sociale. Ma una famiglia ‘chiusa contro tutti’ non costituisce un luogo in cui le singole personalità possono effettivamente maturare, poiché la certezza dei suoi rapporti interni diviene ragione di staticità psicologica e culturale. E questi difetti, in seguito, si riversano negli insiemi ‘amicali’ esterni, attraverso un gruppuscolarismo composto di ritualità e di mimetizzazioni che degradano facilmente verso il ‘bullismo’ o la deresponsabilizzazione individuale. Il singolo individuo diviene effettivamente libero solo allorquando riesce ad assumere l’identità etica del cittadino che può raggiungere la propria maturità e la sua effettiva realizzazione umana. Lo stesso presupposto che vedrebbe la famiglia come ‘pietra angolare’ della società dev’essere rovesciato, poiché una volta compiuto il proprio percorso formativo, è l’etica della responsabilità sociale quella che deve ispirare positivamente le relazioni personali dell’individuo. Dal punto di vista cattolico, la famiglia è una cellula all’interno della quale nasce e si sviluppa l’uomo in quanto persona, l’alternativa alla disperazione individualista. Ma nel Vangelo vi è anche una concezione diversa: quella dell’individuo in quanto singolo soggetto responsabile della propria salvezza. Nel Vangelo di Luca, Cristo lo chiarisce espressamente: “… Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace sulla Terra: io non vengo a portare la pace, ma una spada. Io sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre. I nemici dell’uomo saranno proprio coloro che abitano nella sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà, ma chi avrà perduto la sua vita per me, la ritroverà. Nell’attesa che venga il giorno in cui i primi saranno gli ultimi. E gli ultimi, i primi…”. Il passo è inequivocabile: il Vangelo intende il rapporto ‘uomo-Dio’ prevalente e superiore rispetto a ogni rapporto umano, compresi quelli familiari. E’ la carità, invece, il vero sentimento che deve ispirare la società in quanto amore universale verso l’uomo, un sentimento che non è affatto identificabile con il culto della famiglia. Se osserviamo bene le realtà di fatto, nella famiglia prevale una cristianità conformista, blanda, accomodante, in cui, come confermato quotidianamente dalla cronaca, vengono applicati permissivismi sfrenati e antieducativi. Dunque, non è affatto vero che le cosiddette coppie di fatto - che per la Chiesa sono anche quelle sposate solo civilmente, é bene ricordarlo… - l’educazione dei figli possa essere meno accurata di quanto non lo sia nella famiglia ‘regolare’. Insomma, non vi sono fondate ragioni sociali per impedire un riconoscimento giuridico di nuovi generi di rapporti affettivi. Anzi, un’eventuale stabilizzazione giuridica e innovative garanzie sociali riconosciute a relazioni diverse da quelle matrimoniali possono rafforzare il senso di appartenenza degli individui alla società, aiutandoli a uscire dal ghetto psicologico della diversità, specialmente nelle relazioni omosessuali. Se l’essenza del cristianesimo è il martirio, ovvero, in senso strettamente etimologico, la testimonianza (in greco, la parola martyr significa, letteralmente, testimone), diviene dunque questo il terreno su cui i cattolici dovrebbero sfidare il pensiero laico. Gli uomini sono attaccati alla vita e possono viverla anche se per essi è senza valore. Ma una vita senza valore viene fatalmente vissuta male, con rancori, diffidenze, inimicizie, verso se stessi e verso gli altri. Ciò che dà realmente valore alla vita è, invece, la speranza, la prospettiva, la convinzione di contribuire a fare qualcosa di importante. Ed è di questo che si sente, in realtà, l’effettiva mancanza.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
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