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diretto da Vittorio Lussana
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28 Marzo 2024

Logiche di ‘mano tesa’

di Vittorio Lussana
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In una fase di rievocazione del cosiddetto compromesso storico di ‘berlingueriana memoria’, dovuta all’instaurazione del Governo Monti sulla base di una maggioranza parlamentare di “salvezza nazionale”, proviamo dunque a ripercorrere la Storia della sinistra italo-marxista italiana nel tentativo di comprendere per quale motivo essa si sia spesso lasciata ridurre a semplice ‘stampella’ dei ‘poteri forti’ o delle cosiddette ‘oligarchie tecnocratiche’. Ciò anche al fine di intravedere, al di là dell’esperimento ‘tecnico’ attualmente in corso, quali possibili errori il centrosinistra italiano, questa volta, dovrebbe cercare di evitare prima del ‘bagno di sangue’ previsto per la primavera del 2013.

PALOMBELLA ROSSA
Nel marzo del 1953, l’Unità titolò a tutta pagina: “È morto l’uomo che più ha fatto per la liberazione del genere umano”. Si trattava di Giuseppe Stalin, il dittatore dell’Unione Sovietica che si era reso protagonista e artefice di numerosi crimini nei confronti di ogni genere di dissenso interno al Paese uscito dalla rivoluzione di ottobre del 1917. Stalin, da vivo, non amava comparire in pubblico, quasi mai si lasciava ritrarre e faceva leggere i propri messaggi alla nazione da uno speaker di fiducia. Eppure, i comunisti italiani – ma non solo essi – nei giorni della sua scomparsa rimasero sbigottiti, vittime di una deificazione e di un ‘culto della personalità’ ben descritto in un lavoro di Leonardo Sciascia intitolato, appunto, ‘La morte di Stalin’: “Calogero guardava le fotografie degli incontri di Teheran e di Yalta, Roosvelt, Churchill e Stalin. Ma Stalin era diverso: i primi due erano senza dubbio grandi uomini che sapevano quel che facevano, ma lo sapevano solo per l’oggi: Stalin, invece, aveva in mano il giuoco per domani, per sempre, il giuoco di Calogero Schirò e del mondo intero. Quando Stalin calava una ‘carta’, quella era la ‘carta buona’ per Calogero Schirò e per l’avvenire dell’umanità. Roosvelt e Churchill pensavano alla guerra da vincere, al mondo liberato dalla ‘nera minaccia’, alle navi dell’Inghilterra e dell’America a far rete di commercio nel mondo. Stalin, invece, pensava ai salinari di Regalpietra, agli zolfatari di Cianciana, ai contadini del feudo, a tutta le gente che sul lavoro gemeva sangue: niente sarebbe stato vincere la Germania nazista se gli uomini di Regalpietra e di Cianciana continuavano a vivere come bestie”. Stando così le cose, si può ben comprendere come Palmiro Togliatti, quando giunse a Salerno il 28 marzo 1944 dopo aver inviato un telegramma in cui aveva annunciato l’abbandono della pregiudiziale repubblicana e la sua nuova strategia di unità nazionale antifascista, trovasse tutto il Partito schierato al proprio fianco: Togliatti era, appunto, l’uomo di Stalin. E la sua condotta sarebbe stata quella che il ‘padre’ del proletariato mondiale aveva consigliato per la situazione italiana. Qualche ‘mugugno’ per la storica ‘svolta di Salerno’ si fece sentire: in alcune pagine delle sue ‘Lettere a Milano’, Giorgio Amendola descrisse lo sbigottimento di Mauro Scoccimarro: “Questa politica la farete voi”! Tuttavia, il dissenso evaporò immediatamente allorquando lo stesso Scoccimarro fu posto di fronte alla robustezza della proposta di Togliatti, che non nasceva solo dagli accordi di Yalta e dal ‘nutum’ imperiale di Stalin, che pure aveva riconosciuto il governo Badoglio per ritorsione contro gli americani - i quali non lo avevano messo al corrente delle trattative dell’armistizio dell’8 settembre 1943 - bensì derivava dai deliberati del VII Congresso dell’Internazionale comunista e obbediva al sano criterio secondo cui i nemici vanno eliminati uno per volta: prima i fascisti, poi la monarchia, poi le classi reazionarie. La svolta di Salerno si fondava, insomma, sull’intuizione che la forza crescente del Pci dipendesse dalla vastità, dalla coerenza e dall’efficacia dell’impegno comunista nella lotta di liberazione nazionale. Togliatti espresse tali argomentazioni proprio nell’aprile del 1944, durante un convegno organizzativo del Pci a Napoli: “Noi vogliamo la distruzione della Germania hitleriana sino alla sua disfatta completa. Ciò fa di noi il Partito all’avanguardia nella lotta di liberazione nazionale, assicurando il contatto più stretto possibile con il popolo italiano, poiché noi siamo, tra tutte le formazioni politiche, il Partito più decisamente e nettamente antifascista…”.

IL PARTITO NUOVO
Ma per cosa doveva battersi, a guerra terminata, il Partito dell’antifascismo, anzi, il Partito più antifascista di tutti? Il ‘sintagma’ per mezzo del quale Togliatti iniziò ad elaborare la nuova linea strategica del Partito comunista fu quello della “democrazia progressiva”, una formula che alludeva a un incontro tra l’eredità liberaldemocratica (garanzie civili, forma di governo repubblicana, pluralismo politico) con le richieste classiche del socialismo riformista (innalzamento dei salari, redistribuzione dei redditi per via fiscale) e un modello di stampo sovietico di assistenza sociale ai lavoratori (servizi sanitari gratuiti, alloggi a basso prezzo, calmieramento dei prezzi per i beni di prima necessità, istruzione generalizzata). Ma quali dovevano essere le iniziative per raggiungere tali risultati in un Paese che non aveva bisogno di una rivoluzione, bensì di una ricostruzione? Il Pci, sin dal primo momento, si mosse su due livelli: al nord e nell’Italia centrale si mise alla testa di quei ceti sociali favorevoli a un cambiamento radicale della struttura dello Stato, dominando le amministrazioni locali e le organizzazioni sindacali conquistando posizioni dalle quali, in seguito, divenne praticamente impossibile ‘sloggiarli’. Nel sud e a Roma, invece, fece di tutto per poter accelerare la ricostruzione del vecchio Stato prefascista e della sua autorità. Questo moderatismo di Togliatti è stato spesso spiegato con il prono ossequio al ‘rapprochement filomonarchico’ di Molotov e Visynskij e, al contempo, con la sottomissione di chi era consapevole che l’Italia non solo non avesse bisogno di una rivoluzione, ma che non potesse nemmeno pensare di farla, poiché gli stessi accordi internazionali tra le superpotenze non lo avrebbero permesso. Ma, in verità, il Segretario del Pci iniziò a sprecarsi in sorrisi e galanterie con monarchici, liberali e notabili conservatori perché aspirava a ‘coprirsi le spalle’ all’interno degli apparati dello Stato e della pubblica amministrazione in una gara forsennata contro il tempo, approfittando del prestigio e della legittimazione che gli venivano offerti dalla piaggeria verso Mosca del corpo diplomatico italiano. Dopo il riconoscimento di Badoglio da parte di Stalin, infatti, gli uomini del nostro Ministero degli Esteri, in particolare l’aristocratico Renato Prunas, che a quei tempi ricopriva il ruolo di Segretario Generale della diplomazia italiana, non rinunciavano all’espediente puerile del gioco su due tavoli al fine di strappare a est quella ‘comprensione’ che essi non riuscivano ad avere dalla gentile sordità di inglesi e americani. E ciò nonostante i sovietici, come l’Ambasciatore Quaroni si affannava a spiegare - senza essere molto ascoltato - avessero dichiarato a più riprese di non volersi occupare dell’Italia separatamente dagli alleati occidentali. Insomma, nonostante la cerimoniosa disinvoltura degli anni ’45 – ’47, i detrattori e gli avversari dei comunisti rimasero in preda al sospetto che il Pci avesse scartata la via rivoluzionaria solo a parole. E se si inquietarono moltissimo dopo le agitazioni di massa del 1947, che toccarono il culmine con l’occupazione della prefettura di Milano, precipitarono in un vero e proprio panico allorquando, il 10 luglio 1948, durante il dibattito generale alla Camera sul piano Erp, Togliatti, nel corso del proprio intervento, sibilò la seguente frase: “Se il nostro Paese dovesse essere trascinato per la strada che lo portasse verso una nuova guerra, noi comunisti conosciamo il nostro dovere: alla guerra imperialista si risponde con la rivolta, con l’insurrezione per la difesa della pace, dell’indipendenza e per l’avvenire dell’Italia”! A seguito di una simile dichiarazione, la maggior parte degli italiani ritenne che ‘il migliore’, dopo aver indossato per un paio di anni il ‘doppiopetto borghese’ nella speranza di vincere le elezioni generali del 18 aprile 1948, successivamente alla sconfitta avesse ‘rispolverato’ la più familiare ‘camicia rossa’. Certo è che un problema di compagni militarizzati pronti ad abbracciare il fucile e di sovversivi in attesa di una ‘seconda ondata’ sospesa sine die, di nostalgici dei riti violenti della rivoluzione di ottobre e di ex partigiani dai modi un po’ maneschi esisteva realmente. In parte, Togliatti lo risolse conferendo ai dirigenti meno malleabili compiti e incarichi di responsabilità che li tenesse assai vicini al proprio sguardo indagatore. In parte, cercò di risolvere il problema in ‘punta di dottrina’ teorizzando e organizzando il cosiddetto ‘Partito nuovo’, lo strumento chiamato a realizzare, nel tempo, la “democrazia progressiva”. Nuovo doveva essere, secondo Togliatti, un Partito capace di tradurre in atto quell’egemonia della classe operaia che doveva abbandonare “una posizione unicamente di opposizione e di critica, nella consapevolezza di possedere una soluzione a tutti i problemi nazionali” e che, pertanto, doveva essere in grado di “trasformare la propria organizzazione configurandosi coraggiosamente come un Partito nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressiste del Paese”. In un’Italia composta quasi interamente da contadini e da appartenenti al cosiddetto ‘ceto medio’, una simile forza politica doveva dunque dimostrarsi idonea “a ospitare, rappresentare e mobilitare proprio questi due gruppi sociali, poiché la pretesa incompatibilità tra Partito comunista e ceto medio non esiste…”.

IL RAPPORTO CON GLI INTELLETTUALI
In pratica, Palmiro Togliatti, dopo la sconfitta del Fronte Popolare del 1948, tentò la strada di un Partito di ‘popolo’, interclassista, dal quale dovevano essere esclusi solamente “i vecchi gruppi di privilegiati e reazionari i quali, anche se non passano apertamente nel campo antidemocratico, rendono maggiori servizi ai nemici della democrazia che ai suoi amici”. Su questa base, il ‘migliore’ giocò allora la carta del reclutamento della gran massa degli intellettuali italiani, non solo e non tanto perché i Partiti laici minori non erano in grado di contrastare lo spettro della clericalizzazione del Paese, ormai in atto dopo la vittoria della Democrazia Cristiana, bensì perché l’affluenza di vecchi ‘crociani’ come Luigi Russo e di cattolici tolleranti come Arturo Carlo Jemolo poteva essere utilizzato al fine di diffondere un indimostrabile alone di ‘simpatia’ che l’intellighentia intellettuale italiana riservava al Pci, in particolare attraverso l’appoggio della casa editrice Einaudi e la celebre individuazione della ‘catena’ filosofica De Sanctis – Labriola – Croce – Gramsci. In effetti, già sul finire degli anni ’40, alla Einaudi avevano iniziato a confrontarsi e a discutere gli ingegni più vivaci del Partito d’Azione (Leone Ginzburg e Norberto Bobbio), i giovani virgulti dell’intelligenza comunista (Cesare Pavese, Italo Calvino, Antonio Giolitti) e qualche filosofo cattolico (Carlo Bo e Felice Balbo). A tenere insieme simili temperamenti era una sorta di ‘neogobettismo’ rivisitato, che li portò a teorizzare la famosa “funzione liberale della classe operaia”, ovvero l’attitudine della lotta di classe a rendere più aperta e creativa una società sempre in punto di soccombere sotto la cappa del conformismo ecclesiastico o del paternalismo autoritario. Sulla base di simili entusiasmi, Togliatti tentò allora la ‘carta’ della pubblicazione, sempre per i tipi della Einaudi, prima delle ‘Lettere’ e poi dei ‘Quaderni dal carcere’ di Antonio Gramsci, presentandolo, da un lato, come “un grande italiano” e, dall’altro, come “il fondatore del Pci che, attraverso un dialogo serrato, ma mai triviale, con Benedetto Croce” era riuscito “a elaborare categorie sociologiche e scientifiche (la riforma intellettuale e morale, l’egemonia, il nuovo Principe, la cultura nazional-popolare, ndr) assolutamente utili ai fini di un’interpretazione della società, della Storia e della scienza politica”. Tuttavia, proprio in un’occasione così ‘ghiotta’ emersero una serie di limiti che distingueranno sempre la produzione culturale dei comunisti italiani: nella revisione dei ‘Quaderni’, qua e là amputati con scarso senso filologico, soprattutto nei riferimenti del grande intellettuale sardo a personaggi sepolti dalla riprovazione del movimento comunista internazionale come ad esempio Lev Trockij, si delineò una ben precisa mentalità censoria, un amore tutto burocratico per le verità d’ufficio, un’attrazione per le convenienze momentanee, tendenze che aprirono un grave ‘squarcio di verità’ intorno alla malattia da cui è sempre stato affetto il Pci. Non mi riferisco tanto a una sorta di ‘doppiezza’ da parte di chi era costretto a professare una visione puramente strumentale della democrazia in attesa di un suo superamento rivoluzionario, bensì a un orripilante pedagogismo esasperato, a una insopportabile ipocrisia prelatizia, a una confusionaria identificazione del Partito con la mano provvidenziale della Storia, a una pretesa di annullamento di ogni individualità e di sacrificio di ogni criticità sull’altare delle obbedienze gerarchiche, un armamentario culturale tutto incentrato su abiure, rettifiche, compromessi, pentimenti, scomuniche, confessioni in pubblico. Insomma, si trattava di limiti dogmatici derivanti da un ceto dirigente educato all’ortodossia marxista–leninista, una classe di professionisti della politica la quale, pur credendo sinceramente nella democrazia, si approcciava a essa attraverso strumenti etici e concettuali buoni per rinsaldare una dittatura o per combattere una guerra civile, come se un sistema democratico, le sue procedure elettorali e i suoi problemi di ricambio generazionale o di semplice avvicendamento della classe dirigente italiana potessero esser tenuti a battesimo dal ‘centralismo democratico’.

LA VICENDA DEL ‘POLITECNICO’
Verifica e controprova di tutto ciò, fu la ‘grana’ che scoppiò con la rivista ‘Il Politecnico’, diretta dallo scrittore Elio Vittorini (“Conversazione in Sicilia” e “Uomini e no”). Vittorini era un intellettuale abituato a frugare in scaffali poco esplorati che, a un certo punto, apparse agli occhi di Togliatti per quello che, in effetti, egli era: uno studioso ‘disorganico’, un ‘bizzarro’, un caparbio, un amante di libri eccentrici e proibiti, uno che interpretava la battaglia delle idee come un incontro di pugilato, che identificava la politica con la cronaca e la cultura con la Storia. Per dirla in termini sintetici, un liberale vero… La rivista che confezionava era attraversata da uno sperimentalismo quasi febbrile, da una allegria eclettica, da una curiosità senza confini: Franco Fortini vi fece pubblicare vari testi appartenenti al filone dei surrealisti francesi, Giulio Preti si era innamorato degli empiristi anglosassoni, lo stesso Vittorini proponeva a più riprese i prediletti narratori americani. Tuttavia, questa mistura di cosmopolitismo, congiunta alla stravagante ubbia della cultura che sale al potere, per il Pci cominciò a essere di difficile ‘digeribilità’. Dunque, iniziò a contrastare la rivista facendo ‘scendere in campo’ un uomo destinato a diventare il principale flagellatore di ‘eretici’, Mario Alicata, il quale, con un articolo apparso sulle colonne di ‘Rinascita’ e intitolato ‘Intellettuali e azione politica’ argomentò la seguente tesi: “Secondo me, è intellettualismo giudicare ‘rivoluzionario’ uno scrittore come Hemingway, le cui doti non vanno al di là di una sensibilità da ‘frammento’, da ‘elzeviro’, e ‘rivoluzionario’ e ‘utile’ un romanzo come ‘Per chi suona la campana’, che rappresenta la riprova estrema dell’incapacità di Hemingway a comprendere e a giudicare un qualcosa che vada al di là di un suo ‘quadro’ di sensazioni elementari e immediate: in una parola, egoistiche… Insomma, Vittorini e i suoi amici sono partiti dal presupposto illuministico di dover ‘informare’ il lettore italiano su tutto un complesso di fenomeni letterari, scientifici o storici da cui venti anni di oppressione e di oscurantismo li aveva, in larga parte, ‘tagliati fuori’. E ritengono che informare valga, automaticamente, a educare cercando, piuttosto che favorire un processo cosciente di critica e autocritica, di smuovere entusiasmi e fantasie…”. Vittorini, senza molti convenevoli, rispose con un editoriale nel quale si divertì a tacciare il proprio interlocutore con l’accusa di ‘codino’. Toccò dunque a Togliatti in persona redarguirlo a dovere. Con tono mellifluo e fingendo di ignorare che colui al quale indirizzava la propria reprimenda aveva scritto, già nel 1931, che “lo scrittore è profeta, non cronista, provoca le rivoluzioni, non le esalta a cose fatte”, il direttore di ‘Rinascita’ decise di scegliere una linea opposta rispetto a quella di Alicata, ovvero quella del ‘fratello maggiore’ che cerca di spiegare in cosa avrebbe errato il proprio ‘fratello minore’: “Il programma iniziale de ‘Il Politecnico’ era adeguato ai compiti di rinnovamento del panorama culturale che si era autoassegnato. I malanni sono affiorati dopo, quando l’indirizzo annunciato non veniva seguito con coerenza e veniva, anzi, sostituito da qualcosa di diverso, da una strana tendenza verso la cultura enciclopedica, in cui una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, ha preso il posto della scelta e dell’indagine coerente con un obiettivo. Seguendo la strada per la quale ‘Il Politecnico’ tende a porsi ci sembra si possa non solo arrivare alla superficialità, ma anche a compiere o ad avallare sbagli fondamentali di indirizzo sociologico…”. Naturalmente, la risposta di Vittorini non si fece attendere. Ostinandosi a parlare solo di cultura, senza cioè raccogliere il richiamo all’ideologia che sottendeva tutto l’oggetto del contendere, lo scrittore siciliano ribattè con veemenza: “Politica si chiamerà la cultura che per agire (e qui intendo agire non tanto nel senso dello storicismo idealistico, quanto in quello del materialismo storico) si adegua di continuo al livello della maturità delle masse, segna il passo con esse, si ferma con esse, come accade che con esse esploda. Continuerà a chiamarsi cultura, invece, quella cultura che, non impegnandosi in nessuna forma di azione diretta, saprà andare avanti sulla strada della ricerca, poiché la linea che divide, nel campo della cultura, il progresso dalla reazione, non si identifica esattamente con la linea che li divide in politica…”. La disputa, in apparenza, terminò qui, senza vincitori né vinti, anche se un silenzioso disimpegno sottrasse alla rivista, di lì a qualche mese, la rete distributiva del Pci strangolandola dolcemente. Ma la querelle si riaccese all’improvviso nel 1951, quando un Vittorini ormai apolide, in un fondo firmato per ‘La Stampa’ accusò senza mezzi termini “il dottrinarismo comunista, che inceppa la corrente millenaria della Storia, che è poi la millenaria corrente liberale”. Togliatti, punto sul vivo, decise allora di impugnare la ‘clava’ dettando un violentissimo editoriale per ‘Rinascita’ firmandosi con lo pseudonimo ‘Roderigo di Castiglia’. Il brano venne intitolato: ‘Vittorini se n’è gghiuto e soli ci ha lasciato’. Ecco qui di seguito una parte particolarmente incisiva, che contiene due proposizioni assolutamente capitali per chiunque voglia comprendere veramente la storia del rapporto tra il Pci e gli intellettuali ‘democratici’ e non ideologizzati: “Vittorini era venuto con noi perché credeva fossimo liberali: invece, siamo comunisti. Ma perché non farselo spiegare prima? Vi sono intellettuali che, quando aderiscono al Partito, pensano di doverne essere per natura i dirigenti chiamati a elaborare le parti più elevate della sua dottrina. Ebbene: si sbagliano”! Che Vittorini fosse sempre stato un liberale era una questione totalmente fuori discussione. Ma chi, nello sforzo di pervenire a una valutazione equa del suo scontro con Togliatti cerca di far risalire questo liberalismo solo alla “dissoluzione dell’ideologia fascista”, dalla quale sarebbero iniziati a ‘zampillare’ “motivi umanitari e sociali, insieme all’aspirazione dell’autonomia degli intellettuali e della produzione letteraria italiana” finisce con l’eludere un problema cruciale. L’adesione al Pci di gruppi intellettuali ‘liberali’ era solamente l’epifenomeno della cronica sottorappresentanza della borghesia laica e democratica di cui il sistema politico italiano ha sempre sofferto. Se negli anni dello ‘zdanovismo’ imperante, gli intellettuali liberali poterono sopportare l’estetica del realismo socialista, l’esaltazione delle nefandezze di Mikhail Ciaureli, la liquidazione di Andrà Gide come di uno “specialista in pederastia”, il dileggio di Pablo Picasso a onta della sua militanza comunista, la denuncia del jazz come “gillespismo decadente”, l’addebbito di “scarsa cinematograficità” rivolto “all’anarchico e individualista Charlie Chaplin”, la stroncatura agghiacciante del Dies irae di Carl Theodor Dreyer, la definizione di Albert Camus come “falsario”, di Ignazio Silone come di un “poco di buono” e di Vittorio Gorresio come di uno “scarafaggio”, fu solo perché l’intellighentia liberale italiana reputò che il Pci fosse l’unico argine contro il dilagare dell’Italia delle parrocchie e dei comitati civici, degli abusi amministrativi e del restringimento degli spazi di libertà.

LA ‘PORTA STRETTA’ DEI COMUNISTI
Dunque, Palmiro Togliatti, che all’intellettualità liberale teneva moltissimo quando sapeva di poter contare sulla sua pazienza, come abbiamo visto non fu un taumaturgo, anche se gli andrebbero concesse una serie di ‘attenuanti’ storiche ben precise. In tempi in cui anche il più piccolo sgarbo all’Unione Sovietica significava divenire ‘a Dio spiacenti’, era già segno di straordinaria capacità tentare di compiere degli ‘innesti’ tra l’hegelo–marxismo italiano e la vulgata leninian–staliniana imperante al di là della ‘cortina di ferro’. Tuttavia, anche se differito nel tempo, un prezzo per simili operazioni alla fin fine lo si deve pagare: incitando alla persecuzione delle cosiddette “iene dattilografe”, imponendo tematiche populiste del rispecchiamento, sommergendo di contumelie tutto il pensiero che non annunciava “radiose albe di progresso”, proscrivendo i Nietzsche, gli Jasper, gli Heidegger, il Pci, il quale fu comunque l’unico Partito - si noti bene - che cercò di condurre in modo esplicito una politica culturale, finì col caricare sulle spalle dei propri intellettuali un fardello di ritrattazioni, di incombenze propagandistiche e di inevitabili nicodemismi destinato a divenire, lungo il corso dei decenni, intollerabile. Dopo la sconfitta del 18 aprile 1948, Togliatti decise di porre la sordina alla sua tradizionale auscultazione del mondo cattolico ripiegando su una stravagante rivalutazione del ‘giolittismo’, ciò al fine di lasciar intendere alle altre forze politiche che il perdurare dello scontro con i Partiti operai non avrebbe prodotto quello sviluppo capitalistico in grado di rilanciare l’economia del Paese nel breve volgere di un paio di decenni: una sorta di implicita richiesta di tregua con il blocco di potere democristiano giustificato dalle necessità di consolidamento del sistema di produzione nazionale e dalle emergenze imposte dalla situazione in cui complessivamente versava il Paese. Ma ‘giolittismo’, in qualche modo, voleva anche dire freddezza o scarsa sensibilità per la questione meridionale. E fu proprio nel Mezzogiorno, infatti, che la politica di reclutamento dei ceti medi da parte del Pci finì col fallire miseramente. A questo punto, ci sarebbe da chiedersi come mai ciò sia potuto accadere, visto che il Partito comunista italiano doveva essere “la formazione della classe operaia che possedeva una soluzione per ogni problema nazionale”. Ma la questione di fondo dei comunisti, in verità, è sempre stata un’altra: la difficoltà di una sincera constatazione della fragilità della propria cultura di governo, che ha costretto il Pci a lunghissimi decenni di tematiche populiste, di cavalcamento di ogni forma di malcontento, tutti problemi dettati da esigenze propagandistiche che hanno finito col soffocare ogni minima tentazione verso decisioni coraggiose ma ‘impopolari’. In questo modo, il Pci ha solamente finito con l’isolarsi, col rassegnarsi a divenire una sorta di ‘seconda società’, un luogo dove ogni circuito di possibili relazioni interpersonali diveniva possibile semplicemente nelle ‘Case del popolo’ e durante le ‘Feste de l’Unità’. Cosciente di aver bisogno più che mai della forza numerica e del successo elettorale, il Pci dovette rinunciare alla stesura di programmazioni selettive che avrebbero potuto diminuirne il peso e la consistenza, congelò ogni dualismo, rinunciò a individuare quelle esigenze di innovazione tecnologica e infrastrutturale che avrebbero potuto dargli modo di inserirsi nel merito di una reale modernizzazione del Paese. E fu proprio in base a tali limiti culturali che, successivamente, Enrico Berlinguer commise l’errore di credere possibile un accordo di compromesso storico con il blocco moderato italiano, incuneandosi in un terreno che finì col rendere evidente come il Pci non avesse mai sviluppato coerenti politiche di modernizzazione e di riorganizzazione strutturale dell’economia, un errore che lo ha poi portato a sottovalutare l’eventualità di dover svolgere, un giorno, il ruolo di Partito delle riforme e che lo ha condotto a sottovalutare quelle ‘sacche’ di ‘settarismo protestatario’, a lungo coltivato per mere finalità elettorali ma che, in seguito, hanno dato vita a fenomeni assai pericolosi per la giovane democrazia italiana.

IL PARADISO PERDUTO
Alla fine di febbraio del 1956, Palmiro Togliatti ricevette un plico riservatissimo proveniente da Mosca: era il rapporto segreto di Nikita Chruscev che elencava al Segretario generale del Pci una lunga lista di crimini impressionanti, i quali avevano letteralmente costellato l’intera storia dell’Unione sovietica, nonché un’impietosa requisitoria contro Giuseppe Stalin e il suo mito. Nei giorni successivi, Togliatti fece di tutto per mostrarsi sereno. Ma, in realtà, era letteralmente fuori di sé: la leggenda del ‘paradiso sovietico’ rappresentava un ingrediente fondamentale del consenso elettorale del Pci, uno strumento assolutamente necessario per mobilitare la ‘base’ e catturare un elettorato ‘proletario’ che poteva adattarsi a un’esclusione a tempo indeterminato dal potere solo facendo riferimento a un luogo realmente esistente, in cui era stato possibile sopprimere la tirannia del capitale e la schiavitù del lavoro. Pertanto, quando il New York Times, qualche mese dopo, pubblicò integralmente il testo del ‘Rapporto Chruscev’, il ‘migliore’ decise di rilasciare un’intervista alla rivista culturale ‘Nuovi argomenti’, diretta da Alberto Carocci e Alberto Moravia, al fine di tranquillizzare i militanti del proprio Partito e denunciare quel “culto della personalità che, tuttavia, non ha inficiato la validità teorica del marxismo–leninismo”. Togliatti si illuse di aver chiuso la partita. Ma le cose non andarono affatto così: alla fine di giugno, gli operai polacchi della città di Poznan si sollevarono contro il Poup (Partito operaio unificato polacco) affrontando la polizia in accesi scontri che provocarono decine di morti e centinaia di feriti. Il Segretario comunista della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, rivendicò come legittime le rivendicazioni di quei lavoratori. Ma Togliatti, pochi giorni dopo, decise di prendere posizione su ‘l’Unità’ dettando un articolo nel quale attribuiva la sommossa “a un complotto del capitalismo internazionale”. L’errore fu gravissimo: pochi mesi dopo, proprio il Poup si vide costretto a richiamare alla testa del partito Wladimir Gomulka, un leader che era stato privato di ogni carica sin dal 1948 e tenuto in carcere per più di quattro anni con l’accusa di ‘titoismo’. Ma Togliatti e i suoi non ebbero nemmeno il tempo di respirare, poiché alcuni mesi dopo si rivoltarono gli ungheresi. In un primo momento, la situazione sembrò tranquillizzarsi subito grazie al leader comunista Imre Nagy, il quale decise di dar vita ad un nuovo Governo estromettendo lo spietato dittatore Rakosi. Il Pci, in un fondo non firmato su ‘l’Unità’, decise di assumere una linea imprudentemente antisommossa che parlava espressamente di “forze controrivoluzionarie”. Ma solo dopo qualche giorno, allorquando Mosca decise di riconoscere il Governo Nagy e di ritirare quei reparti meccanizzati dell’Armata rossa che già erano entrati in territorio magiaro, fu costretta a una frettolosa rettifica. Nelle settimane immediatamente successive, a Budapest la situazione esplose nuovamente in seguito a un’improvvisa sollevazione ‘libertaria’, promossa da giovani studenti e operai, che costrinse Nagy a ripudiare il Patto di Varsavia: tanto bastò ai sovietici per invadere nuovamente l’Ungheria, reprimere ‘sotto ai cingoli’ la sommossa ungherese, destituire e far impiccare Nagy, ripulire il Paese per mezzo di un drammatico ‘bagno di sangue’ che ‘l’Unità’ applaudì incondizionatamente. Il segno era ormai passato: questa volta, in seno al Pci le reazioni non potevano venire a mancare: mentre il gruppo dirigente, con le sole eccezioni di Giorgio Amendola e Giuseppe Di Vittorio, fece quadrato contro la ‘canea’ della ‘stampa borghese’, ben 101 intellettuali italiani tra storici, giuristi, filosofi e giornalisti sottoscrissero un manifesto che, oltre a lamentare la decapitazione dell’Ungheria democratica, chiamò direttamente in causa i metodi ‘staliniani’ ancora in vigore nel Partito guidato da Palmiro Togliatti. Un idillio era ormai finito. E, con esso, anche l’ambizione di un’egemonia comunista su tutto il mondo intellettuale italiano.

IL COMPROMESSO STORICO
Nel decennio 1060 – ‘69, il Pci si era ritrovato all’improvviso nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Togliatti (1964). Fu a quel punto che iniziò a emergere la figura di Enrico Berlinguer. Prima di diventare Vicesegretario e poi Segretario generale del Pci, il leader sassarese aveva studiato a fondo le caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e democristiano. E aveva scoperto come essi non fossero così dissimili. Gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati ed intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati. La Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Dunque, secondo Berlinguer, si trattava di due Partiti che condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base iniziò a elaborare una propria teoria esposta per la prima volta nell’opuscolo: ‘Riflessione dopo i fatti del Cile’, pubblicato nel 1973. Berlinguer, inoltre, era un uomo ‘nuovo’, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla leva comunista uscita dalla Resistenza, mentre le sue origini culturali di matrice familiare erano di derivazione schiettamente laica e liberaldemocratica (il padre, Mario, era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subito l’influsso di periodici cattolico–comunisti quali ‘Dibattito politico’ di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi o come la ‘Rivista trimestrale’ di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. In sintesi, la tesi che egli predispose era la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non poteva essere governato con il 51% dei voti o, comunque, con maggioranze composite e risicate. Occorreva, dunque, una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il loro comune radicamento sociale – Dc, Pci e Psi – le quali sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni (non le loro identità…) addivenendo a un ‘compromesso storico’ in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’ configurava, da una parte, l’archiviazione di molta ‘zavorra’ ideologica comunista: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini e operai; dall’altra, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’ che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Nella sua relazione al Comitato centrale, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una nuova formula di Governo, dall’altra vuole essere, già oggi, l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingono i Partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa”. L’ascendenza ‘rodaniana’ di queste considerazioni era più che trasparente: il disegno era praticamente quello di una società ‘organica’, in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro, la stessa ‘lotta di classe’…

DISSACRAZIONE DI UN OSSIMORO
Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente politico commise un errore così grave come quello che fece il Pci allorquando adottò il compromesso storico come propria ‘linea’ politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, allorquando la Camera dei deputati incoronò Giulio Andreotti presidente del Consiglio di un Governo monocolore democristiano, benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un sottosegretario alle Poste e costretto, per propria deliberata scelta, tra le ‘spire immobiliste’ della Dc, il Pci tentò comunque di dare la stura ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come quelle cose potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976 – 1979 fu, a dir poco, miserevole per quantità e qualità poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente capita quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Per esempio, le misure economiche di austerità non riuscirono ad andare oltre a una riduzione delle festività civili e religiose, a una parziale disincentivazione della scala mobile e a un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Il tutto in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), di gravissimo indebitamento dello Stato e di inflazione in caduta libera (nel 1980 si arrivò a sfiorare il 22%). Il che si tradusse in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non era tanto quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite avevano guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una consonanza quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ di Dc e Pci e le domande ‘sociali’ che questi due Partiti esprimevano, nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale, nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, sia la Dc, sia lo stesso Pci possedevano un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’ rispetto alla frugale ‘anima popolare’ che sostenevano di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Con ciò, non intendo affermare che i cosiddetti Governi di ‘solidarietà nazionale’ furono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma che venne varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e di intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi quasi atavici di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la normativa n. 180 del 1978, la cosiddetta “legge Basaglia”, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali: la norma finì col venir disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ venne brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col semplice risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il manicomio, un microcosmo ‘orripilante’ che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali. Insomma, nel giro di tre anni il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). E sembrava ormai annunciarsi all’orizzonte il solito destino ‘tutto italiano’ di Governi deboli e infingardi. Invece, accadde qualcosa destinato a dare, in futuro, discreti frutti: il Congresso nazionale del Psi, svoltosi all’Hotel Midas di Roma nell’estate del 1976, decise di ‘defenestrare’, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino. E, attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del Partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, venne trovato un compromesso sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo Segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni e aveva ricoperto per molti anni la carica di Vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprese, in quel momento, che la sua carriera politica era stata lenta solamente perché apparteneva a una sparuta minoranza interna, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Ma, sfoderando gli ‘artigli’ che aveva saputo tenere ben nascosti, di lì a poco Craxi avrebbe fatto irruzione come un ‘ciclone’ nelle acque ‘stagnati’ della politica italiana.

QUELL’ALTERNATIVA CHE ANCORA NON C’È
Berlinguer dovette dunque constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. E decise di passare dal compromesso storico alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi, un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la propria ragguardevole ‘statura’. Craxi, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di comprimario della grande forza elettorale comunista. E riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente accadde durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo nonostante Bruxelles avesse garantito alla vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e un’assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer temette che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di cambi ‘semifissi’ come quello previsto avrebbe invece incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi aveva perfettamente compreso come Berlinguer fosse una persona umanamente eccezionale che, tuttavia, stava teorizzando una sorta di ‘comunismo democratico’ il quale, in termini di scienza della politica, rappresentava una contraddizione stridente, un nodo impossibile da sciogliere. Il comunismo o è rivoluzionario, oppure non è: “O ideologia borghese, o ideologia di classe. In mezzo, non c’è niente”, aveva scritto Lenin già nel 1919. Eminenti studiosi come Norberto Bobbio stavano rilevando come ormai il Pci stesse svolgendo le funzioni di un vero e proprio partito socialista, un socialismo massimalista, ma pur sempre socialista. Era, dunque, giunto il momento di affermare inequivocabilmente che i socialisti avevano ragione sin dai tempi della rivolta ungherese, repressa dai carri armati sovietici nel 1956. I comunisti italiani, pur avendo indubbiamente dimostrato, soprattutto durante la ‘psicodrammatica’ vicenda Moro, di aver pienamente accettato i metodi e le procedure della democrazia parlamentare, ora dovevano definitivamente abbandonare Karl Marx e guadagnare, a tutti gli effetti, la sponda del socialismo democratico. La guerra tra i due ‘Partiti cugini’ – Pci e Psi - esplose immediata e clamorosa, lasciando la Democrazia Cristiana incredibilmente indisturbata al governo del Paese, nonostante, da un punto di vista numerico, sin dalle elezioni politiche del 1968, se sommati assieme, i due ‘tronconi storici’ della sinistra italiana superassero più che sensibilmente il bagaglio di voti complessivi dello ‘scudo crociato’. Il travaglio comunista fu lento e doloroso, pieno di rancori e sogni infranti. Dopo le elezioni politiche del 1983, Craxi iniziò a presiedere, in alleanza con la Dc, uno dei governi più lunghi e attivi della Storia della Repubblica italiana, dando la ‘stura’ a nuovi metodi di gestione della cosa pubblica, a nuovi rapporti tra mondo del lavoro e associazioni di categoria (ecco come nacque la cosiddetta ‘concertazione’). E l’anno dopo, attraverso un decreto legge, il leader del Psi decise di tagliare tre punti di ‘contingenza’ della cosiddetta ‘indennità integrativa speciale’ – la cosiddetta ‘scala mobile’ - la quale era stata unificata, nel 1975, a un punto talmente elevato da generare un tasso di inflazione a due cifre (nel 1982 era stato raggiunto un dato inflazionistico pari al 22%). Si trattò di un atto di coraggio politico incredibile: il Governo che decretava in materia di contratti! La frazione comunista della Cgil, inferocita, decise di raccogliere le firme al fine di abolire, tramite referendum, quella norma, la quale avrebbe potuto causare, a parere del sindacato comunista, una crisi ‘deflattiva’ che sarebbe ricaduta sui ceti più deboli. Fu stabilito che il referendum si sarebbe tenuto l’anno successivo alle elezioni europee del 1984. Ma proprio durante quella campagna elettorale, Berlinguer venne improvvisamente a mancare. La scomparsa del leader sassarese portò nelle strade di Roma due milioni di persone. E il Pci, per la prima e unica volta nella sua storia, superò, nel conteggio finale dei risultati per il rinnovo del parlamento europeo, la Democrazia Cristiana. Tuttavia, il referendum sulla scala mobile, tenutosi l’anno successivo, venne perduto: si trattò di una sconfitta rovinosa per il Pci, il quale all’improvviso si ritrovava a dover gestire una difficilissima fase ‘post Berlinguer’ in un contesto di gravissima crisi di leadership. Si era ormai definitivamente schiusa l’era di Bettino Craxi, il quale aveva intuito che, considerando le modalità cicliche della congiuntura economica internazionale, ogni possibile ricaduta monetaria discendente dall’abolizione della scala mobile avrebbe avuto effetti molto diluiti nel tempo, peraltro ammortizzati dall’improvviso irrobustimento del potere di acquisto ‘interno’ della lira. La partita, per il Pci, era ormai clamorosamente perduta. Cominciarono così i bellissimi anni ’80, un decennio felice e produttivo in cui il ‘Made in Italy’ divenne di moda “non solo per la moda”, come ebbe a dire lo stesso Craxi. I comunisti erano totalmente in balìa della situazione, a mezza strada tra il disorientamento e una snobistica ‘autosegregazione’ all’opposizione. In una chiave eminentemente dottrinaria, la lucidità politica di Craxi era assolutamente intellegibile: Marx era un economista ‘classico’, alla Ricardo. E come Ricardo aveva teorizzato una caduta tendenziale del saggio di profitto capitalistico che discendeva quasi direttamente dalla teoria ‘ricardiana’ dei rendimenti decrescenti. Insomma, la fotografia di ‘partenza’ del sistema capitalistico delineata dal filosofo di Treviri ne ‘il Capitale’ era perfetta. Ma la ricetta proposta era troppo ‘pessimistica’, poiché nulla ha mai impedito periodici ‘riassestamenti congiunturali’ del sistema produttivo preso nel suo complesso macroeconomico. Si trattava, in buona sostanza, del concetto dell’andamento ciclico dell’economia mondiale che, dopo Marx, era stato teorizzato da Sraffa e da Keynes: non c’era alcun bisogno di erigere un pachidermico ‘capitalismo di Stato’ al fine di assicurare una miglior distribuzione delle ricchezze tra le classi sociali. Bastava – e basta - una periodica ‘correzione’, in termini di politica economica, dei meccanismi di redistribuzione dei redditi e del mercato del lavoro. Il marxismo, insomma, si era rivelato una teoria ‘sociologicamente ingegnosa’, ma scientificamente sbagliata. E non si poteva nemmeno considerarla una filosofia, poiché crollando ogni presupposto scientifico, la sua dottrina di fondo decadeva a mero ‘sentimentalismo proletario’. Bettino Craxi si ritrovò di fronte all’improvvisa agonia della speranza che aveva mosso milioni di uomini e donne in tutto il mondo: quella dell’avvento del Paradiso sulla Terra. L’equivoco, la non comprensione, il fideismo atipico di una sorta di ‘misticismo ateo’, alimentato da decenni di ‘nicodemismi’ strumentali e di doppie verità, si scaraventarono contro di lui. Il ‘craxismo’ iniziò a essere esaminato come fattore degenerativo della politica italiana, una sorta di decisionismo di potere per mere finalità di potere. Ma quella ‘mutazione genetica’ di cui i socialisti erano stati accusati proprio da Berlinguer fu solamente il definitivo strappo dell’autonomista Craxi (autonomista rispetto all’abbraccio con il ‘Grande Fratello’ comunista) dalla tradizione più utopica della sinistra italiana.


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