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26 Aprile 2024

Renzi, quando hai tempo, ‘ripassa’ un po’ di Storia

di Vittorio Lussana
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Renzi, quando hai tempo, ‘ripassa’ un po’ di Storia

Replichiamo - si spera in via definitiva - una nostra sintetica ricostruzione del duro scontro avvenuto all’interno della sinistra italiana tra massimalismo comunista e riformismo ‘craxiano’, al fine di evitare, in futuro, paragoni storici tanto discutibili, quanto improponibili 

Il giovane Matteo Renzi non è più di tanto colpevole nell’aver preferito, recentemente, la figura di Enrico Berlinguer, ottima persona sotto il profilo umano, a Bettino Craxi, grandissimo leader politico. La domanda postagli dal conduttore della trasmissione ‘Che tempo che fa’, Fabio Fazio, è risultata, infatti, superficiale e malposta: un discutibile ‘gioco della torre’ che da più di tre decenni si rifiuta, per motivi di pura pigrizia mentale, di analizzare con obiettività una ‘doppia fase’ della nostra Storia, la quale necessiterebbe, invece, di approfondimenti e spiegazioni cronologicamente precise, secondo un’ottica storiografica ‘dinamico-evolutiva’. Replichiamo dunque una nostra sintetica ricostruzione di quanto accaduto tra i due ‘spezzoni storici’ principali della sinistra italiana - quello comunista e quello socialista - a uso e consumo di tutti coloro che intendono chiudere, una volta per tutte, questa lunga pagina di polemiche infinite che hanno sempre e solamente indebolito il campo delle culture progressiste italiane, generando disquisizioni tanto schematiche, quanto improponibili.

LOTTA DI CLASSE, ADDIO!
Nel decennio 1960-‘69, il Pci si era ritrovato, all’improvviso, nelle condizioni di dover reagire alla grave crisi di leadership venutasi a creare dopo la scomparsa di Palmiro Togliatti (1964). Fu a quel punto che iniziò a emergere la figura di Enrico Berlinguer. Prima di diventare vicesegretario e poi segretario generale del Pci, il leader sassarese aveva studiato a fondo le caratteristiche fondamentali degli elettorati comunista e cattolico-democratico. E aveva scoperto come questi non fossero così dissimili: gli iscritti al Pci erano per il 39% operai, per il 13% braccianti, per il 16% contadini, per il 5% artigiani e commercianti, per il 3% impiegati e intellettuali, per il 13% casalinghe e per il 7% pensionati; la Dc, a sua volta, era composta per il 17% da operai, per il 5% da braccianti, per il 16% da contadini, per il 7% da artigiani e commercianti, per il 22% da impiegati, per il 25% da casalinghe e per il 6% da pensionati. Dunque, secondo Berlinguer, si trattava di due Partiti che condividevano “un’anima profondamente ed eminentemente popolare”. E su tale base iniziò a elaborare una propria teoria, esposta per la prima volta nell’opuscolo: ‘Riflessione dopo i fatti del Cile’, pubblicato nel 1973. Berlinguer era un uomo ‘nuovo’ all’interno della nomenclatura comunista, poiché non apparteneva, da un punto di vista generazionale, alla ‘leva’ uscita dalla Resistenza e le sue origini culturali di matrice familiare erano di derivazione schiettamente laica e liberaldemocratica (il padre, Mario, era stato un dirigente del Partito sardo d’azione). Di carattere schivo, anche a causa di una certa timidezza, aveva subito l’influsso di periodici cattolico-comunisti quali ‘Dibattito politico’ di Mario Melloni e Ugo Bartesaghi o come la ‘Rivista trimestrale’ di Claudio Napoleoni e Franco Rodano. In estrema sintesi, la tesi che egli propose fu la seguente: come la tragica fine di Salvador Allende in Cile aveva dimostrato, uno Stato capitalista non poteva essere governato con il 51% dei voti o, comunque, con maggioranze composite e ‘risicate’. Occorreva perciò una vasta confluenza di forze tra loro compatibili per il loro comune radicamento sociale - Dc, Pci e Psi - le quali sacrificassero una parte delle proprie aspirazioni (non le loro identità…) addivenendo a un ‘compromesso storico’ in nome del risanamento economico, della solidarietà nazionale e della necessità di una nuova etica civile. L’uso dell’aggettivo ‘storico’ configurava, da una parte, l’archiviazione di molta ‘zavorra’ ideologica comunista: dalla teoria ‘leninista’ sulla distruzione del sistema capitalistico, alla tesi ‘gramsciana’ dell’alleanza tra contadini e operai; dall’altra, sul piano strettamente politico, l’ossimoro si presentava come l’inizio di un ‘nuovo corso’ che portava a compimento la vecchia strategia ‘togliattiana’ della ‘mano tesa’ ai moderati, da tempo predisposta dall’ala intellettuale dei ‘comunisti cattolici’ che faceva riferimento ad Adriano Ossicini e, soprattutto, a Franco Rodano. Nella sua relazione al Comitato centrale, Berlinguer lo spiegò nitidamente: “La politica del compromesso storico, da una parte è qualcosa di più di una nuova formula di Governo, dall’altra vuole essere l’indicazione di un metodo di azione e di rapporti politici che, mentre contribuiscono ad agevolare la soluzione di problemi urgenti, sospingano i Partiti e le forze democratiche, nelle istituzioni rappresentative, in altre sedi e in tutto il Paese, a cercare la comprensione reciproca e l’intesa”. L’ascendenza ‘rodaniana’ di queste considerazioni era più che trasparente: il disegno era praticamente quello di una società ‘organica’, in cui la mediazione e la ‘comprensione’ avrebbero dovuto annullare sistematicamente ogni conflitto, ogni problema, ogni scontro, la stessa ‘lotta di classe’… 

L’ABBAGLIO DI BERLINGUER

Forse poche volte, nel corso della Storia, un gruppo dirigente politico ha mai commesso un errore così grave come quello che fece il Pci allorquando adottò il compromesso storico come propria ‘linea’ politica generale. E già alla fine di luglio del 1976 se ne videro le conseguenze, allorquando la Camera dei deputati incoronò Giulio Andreotti presidente del Consiglio di un Governo monocolore democristiano benevolmente atteso dal Pci, sopportato da tutti per un anno e sostituito, l’anno successivo, da un altro ‘monocolore Andreotti’ con maggioranza ‘esapartitica’, divenuta poi ‘pentapartitica’ per il ritiro dei liberali. Nella condizione di non poter disporre neppure di un sottosegretario alle Poste e costretto, per propria deliberata scelta, tra le ‘spire immobiliste’ della Dc, il Pci tentò comunque di dare la stura ai più improbabili propositi di austerità economica, a nuovi modi di governare, a nuovi modelli di sviluppo sociale. Ma dietro ognuna di queste espressioni non vi era il benché minimo progetto per un fare realistico, la benché minima idea di come ‘certe cose’ potessero essere realizzate insieme alla Dc. L’attività legislativa del triennio 1976-1979 fu, a dir poco, miserevole per quantità e qualità, poiché partorita dopo negoziati sfibranti ed estremamente nervosi, come regolarmente capita quando una parte dubita della buona fede dell’altra. Per esempio, le misure economiche di austerità non riuscirono ad andare oltre a una riduzione delle festività civili e religiose, a una parziale disincentivazione della scala mobile e a un blocco, anche questo assai parziale, delle indennità di buona uscita. Il tutto in un quadro complessivo di durissima crisi fiscale, con un fabbisogno tributario pari al 13% del reddito nazionale (contro il 4,5% degli anni ’60), di gravissimo indebitamento dello Stato e di inflazione in caduta libera. Il che si tradusse in un obbligo a provvedimenti aspri, di totale rinuncia alla crescita. L’abbaglio di Berlinguer non fu quello di aver tratteggiato una democrazia ‘consociativa’, poiché coalizioni anche molto composite hanno guidato Paesi come l’Olanda, il Belgio, l’Austria e la Germania, scossi da tensioni etniche o religiose notevolmente più acute di quelle dell’Italia, bensì nell’aver immaginato una consonanza quasi perfetta fra le diverse subculture ‘storiche’ di Dc e Pci e le domande ‘sociali’ che questi due Partiti esprimevano, nell’aver postulato una docilità naturale delle istituzioni e della burocrazia statale e nell’aver giudicato insignificante la questione degli uomini chiamati a tradurre in opere concrete ogni ipotesi politica. Invece, sia la Dc, sia lo stesso Pci, possedevano un ‘corpo’ ben altrimenti ‘vorace’ rispetto alla frugale ‘anima popolare’ che sostenevano di ospitare, mentre gli apparati amministrativi dello Stato non si rivelarono affatto disponibili o neutrali. Con ciò non intendiamo affermare che i cosiddetti Governi di ‘solidarietà nazionale’ furono totalmente ‘abulici’, quanto piuttosto che ogni provvedimento di riforma varato in quella fase finì con lo scontare, nel passaggio dalla teoria all’applicazione, una serie di dirottamenti e intralci che li fecero apparire frutto di demagogia o di prese di posizione meramente ideologiche, mentre invece si trattava di faticosi tentativi di riordinare alcuni settori della vita collettiva in cui imperavano retaggi atavici di inciviltà giuridica e morale. Così avvenne, tanto per citare un caso, con la normativa n. 180 del 1978, la cosiddetta ‘legge Basaglia’, la quale impose la chiusura dei manicomi al fine di affidare l’assistenza psichiatrica dei malati di mente ad apposite strutture territoriali. La norma finì con l'essere disattesa proprio nella sua parte costruttiva e assistenziale. E la cura dei pazienti ‘cronici’ venne brutalmente ‘scaricata’ sulle famiglie, col semplice risultato di diffondere nella società un’insana nostalgia verso il ‘manicomio’, un microcosmo ‘orripilante’, che ha sempre ipocritamente permesso ai ‘sani’ di distogliere il proprio sguardo dal doloroso ‘pozzo’ delle patologie mentali. Insomma, nel giro di tre anni il tentativo del Pci finì col naufragare in un mare di tragedie legislative, umane e politiche (riforma della Rai, rapimento e uccisione di Aldo Moro, recrudescenza del fenomeno terrorista di estrema sinistra, riforma del sistema sanitario nazionale, riforma della normativa sugli affitti). E sembrava ormai annunciarsi all’orizzonte il solito destino ‘tutto italiano’ di Governi deboli e infingardi. Invece, durante un’afosa notte d’estate del 1976, accadde un ‘qualcosa’ destinato a dare discreti frutti: il Congresso nazionale del Partito socialista italiano, svoltosi all’Hotel Midas di Roma, decise di ‘defenestrare’, pur con rispetto e urbanità, l’ormai vecchio e stanco De Martino. E, attraverso una ‘stranissima’ alleanza tra l’ala ‘manciniana’ del Partito e la corrente di sinistra facente capo a Gianni De Michelis, venne trovato un compromesso sul nome di Benedetto Craxi, detto Bettino, a nuovo segretario nazionale. Craxi era il ‘pupillo’ di Nenni e aveva ricoperto per molti anni la carica di vicesegretario. Tuttavia, questo milanese di origine siciliana, sulle prime sembrò un esponente di seconda o, addirittura, terza fila. Nessuno comprese, in quel momento, che la sua carriera politica era stata lenta solamente perché egli apparteneva a una sparuta minoranza interna, quella dei socialisti liberali, che non aveva mai voluto abdicare a una propria ferrea coerenza ideale. Ma, sfoderando gli ‘artigli’ che aveva saputo tenere ben nascosti, di lì a poco Craxi fece letteralmente irruzione come un ‘ciclone’ nelle acque ‘stagnati’ della politica italiana.

L’ALTERNATIVA CHE NON C’ERA
Berlinguer dovette dunque constatare come l’esperimento della ‘solidarietà nazionale’ si fosse rivelato insoddisfacente. E decise di passare dal compromesso storico alla strategia della ‘alternativa democratica’, cioè alla costituzione di un largo fronte politico progressista in grado di mandare la Dc all’opposizione. Ma nelle more di un simile progetto diveniva giuoco forza necessario fare i conti con il Psi e con il suo nuovo leader, Bettino Craxi, un esponente che stava cominciando a dimostrare tutta la propria ragguardevole ‘statura’. Craxi, infatti, non aveva alcuna intenzione di lasciarsi logorare nel ruolo di ‘comprimario’ della grande forza elettorale comunista. E riteneva che il Pci stesse teorizzando un ‘ripiegamento operaista’ che rischiava di preludere a gravissimi errori. Cosa che regolarmente accadde durante il voto parlamentare del 12 dicembre 1978, allorquando il Pci decise di ‘affondare’ l’intera maggioranza parlamentare avversando l’adesione dell’Italia al sistema monetario europeo, nonostante Bruxelles avesse garantito alla vecchia e malandata ‘liretta’ una ‘banda di oscillazione’ più ampia di quella delle altre monete in circolazione nella Comunità economica europea, non escludendo eventuali svalutazioni concordabili. Paventando una virata deflattiva e un’assai poco comprensibile contrazione dell’export, Berlinguer temette che l’inserimento dell’Italia nel cosiddetto ‘serpentone monetario’ si sarebbe ripercosso sull’occupazione e sul potere di acquisto dei salari, senza tener conto del fatto che un regime di cambi ‘semifissi’ come quello previsto avrebbe, invece, incoraggiato nuovi investimenti finanziari proprio nelle nazioni caratterizzate dalla circolazione di monete deboli. Craxi aveva perfettamente compreso come Berlinguer fosse una persona umanamente eccezionale che, tuttavia, stava elaborando una sorta di ‘comunismo democratico’ il quale, in termini di scienza della politica, rappresentava una contraddizione stridente, un ‘nodo’ impossibile da sciogliere. Il comunismo o è rivoluzionario, oppure non è: “O ideologia borghese, o ideologia di classe. In mezzo, non c’è niente…” aveva scritto Lenin già nel 1919. Eminenti studiosi come Norberto Bobbio stavano rilevando come ormai il Pci stesse svolgendo le funzioni di un vero e proprio Partito socialista, un socialismo massimalista, ma pur sempre socialista. Era, dunque, giunto il momento di affermare, inequivocabilmente, che i socialisti avevano ragione sin dai tempi della rivolta ungherese repressa dai carri armati sovietici nel 1956. I comunisti italiani, pur avendo indubbiamente dimostrato, soprattutto durante la ‘psicodrammatica’ vicenda Moro, di aver pienamente accettato i metodi e le procedure della democrazia parlamentare, ora dovevano definitivamente abbandonare Karl Marx e guadagnare, a tutti gli effetti, la sponda del socialismo democratico. La guerra tra i due ‘Partiti cugini’ esplose immediata e clamorosa, lasciando la Democrazia Cristiana incredibilmente indisturbata al governo del Paese, nonostante da un punto di vista numerico, sin dalle elezioni politiche del 1968, se sommati assieme i due ‘tronconi storici’ della sinistra italiana superassero più che sensibilmente il bagaglio di voti complessivi dello ‘scudo crociato’. Il travaglio comunista fu lento e doloroso, pieno di rancori e sogni infranti. Dopo le elezioni politiche del 1983, Craxi iniziò a presiedere, in alleanza con la Dc, uno dei Governi più lunghi e attivi della Storia della Repubblica italiana, dando la ‘stura’ a nuovi metodi di gestione della cosa pubblica, a nuovi rapporti tra mondo del lavoro e associazioni di categoria (ecco come nacque la cosiddetta ‘concertazione’). E l’anno dopo, attraverso un decreto legge, il leader del Psi decise di tagliare tre punti di ‘contingenza’ della ‘indennità integrativa speciale’ - la cosiddetta ‘scala mobile’ - la quale era stata unificata, nel 1975, a un punto talmente elevato da generare un tasso di inflazione a due cifre (all’inizio del 1982 era stato raggiunto un dato inflazionistico pari al 22%). Si trattò di un atto di coraggio politico incredibile: il Governo che decretava in materia di contratti! La frazione comunista della Cgil, inferocita, decise di raccogliere le firme al fine di abolire, tramite referendum, quella norma, la quale avrebbe potuto causare, a parere del sindacato comunista, una crisi ‘deflattiva’ che sarebbe ricaduta sui ceti più deboli. Fu stabilito che il referendum si sarebbe tenuto l’anno successivo alle elezioni europee del 1984. Ma proprio durante quella campagna elettorale, Berlinguer venne improvvisamente a mancare. La scomparsa del leader sassarese portò nelle strade di Roma due milioni di persone. E il Pci, per la prima e unica volta nella sua storia, superò, nel conteggio finale dei risultati per il rinnovo del parlamento europeo, la Democrazia cristiana. Tuttavia, il referendum sulla scala mobile, tenutosi l’anno successivo, venne perduto: si trattò di una sconfitta rovinosa per il Pci, il quale all’improvviso si ritrovò a dover gestire una difficilissima fase ‘post berlingueriana’ in un contesto di gravissima crisi di leadership. Si era ormai definitivamente schiusa l’era di Bettino Craxi, il quale aveva intuito che, considerando le modalità cicliche della congiuntura economica internazionale, ogni possibile ricaduta monetaria, discendente dall’abolizione della scala mobile, avrebbe avuto effetti molto diluiti nel tempo, peraltro ammortizzati dall’improvviso irrobustimento del potere di acquisto ‘interno’ della lira. La partita, per il Pci, era ormai clamorosamente perduta.

IL PARADISO PERDUTO
Cominciarono così i bellissimi anni ’80, un decennio felice e produttivo, in cui il ‘Made in Italy’ divenne di moda “non solo per la moda”, come ebbe a dire lo stesso Craxi. I comunisti erano totalmente in balìa della situazione, a mezza strada tra il disorientamento e una snobistica ‘autosegregazione’ all’opposizione. In una chiave ‘dottrinaria’, la lucidità politica di Craxi era assolutamente intellegibile: Marx era stato un economista ‘classico’, alla Ricardo. E, come Ricardo, aveva teorizzato una caduta tendenziale del saggio di profitto capitalistico che discendeva, quasi direttamente, dalla teoria ‘ricardiana’ dei rendimenti decrescenti. Insomma, la fotografia di ‘partenza’ del sistema capitalistico delineata ne ‘il Capitale’ era perfetta, ma la ‘ricetta’ proposta era troppo ‘pessimistica’, poiché nulla ha mai impedito periodici ‘riassestamenti congiunturali’ del sistema produttivo preso nel suo complesso macroeconomico. Si trattava, in buona sostanza, del concetto dell’andamento ciclico dell’economia mondiale che, dopo Marx, era stato teorizzato da Sraffa e da Keynes: non c’era alcun bisogno di erigere un pachidermico ‘capitalismo di Stato’ al fine di assicurare una miglior distribuzione delle ricchezze tra le distinte classi sociali. Bastava - e basta - una periodica ‘correzione’, in termini di politica economica, dei meccanismi di redistribuzione dei redditi e del mercato del lavoro. Il marxismo, insomma, si era rivelato una teoria ‘sociologicamente ingegnosa’, ma scientificamente sbagliata. E non si poteva nemmeno considerarla una filosofia, poiché crollando ogni presupposto scientifico, la sua dottrina di fondo decadeva a mero ‘sentimentalismo proletario’. Bettino Craxi si ritrovò di fronte all’improvvisa agonia di una speranza che aveva mosso milioni di uomini e donne in tutto il mondo: quella dell’avvento del Paradiso sulla Terra. L’equivoco, la non comprensione, il fideismo atipico di una sorta di ‘misticismo ateo’, alimentato da decenni di ‘nicodemismi’ strumentali e doppie verità, si scaraventarono contro di lui. Il ‘craxismo’ iniziò a essere esaminato come fattore degenerativo della politica italiana, una sorta di decisionismo di potere per mere finalità di potere. Ma quella ‘mutazione genetica’ di cui i socialisti erano stati accusati proprio da Berlinguer fu solamente il definitivo strappo dell’autonomista Craxi (autonomista rispetto all’abbraccio con il ‘Grande fratello’ comunista) dalla tradizione più ‘utopica’ della sinistra italiana.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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