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19 Aprile 2024

Childs' play

di Michele Di Muro - mdimuro@periodicoitalianomagazine.it
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Childs' play

Uno spettacolo delicato e grazioso sul mondo dell’infanzia, che riporta con nostalgia a un tempo lontano in cui tutto era nuovo e autentico  

Quello espresso dai bambini è un linguaggio universale, che trascende le diversità culturali che, invece, distinguono ogni popolo e nazione. E’ in sintesi questo il concetto di base che emerge dal gradevole spettacolo presentato al Fringe Festival di Roma dalla compagnia ‘Triplet Ensemble’, originaria di Israele. Ne sono interpreti e autori Alina Fishzon, Aviran Ruimy e Hadas Selbst, i quali recitano con la direzione di Zvi Fishzon. Si tratta di uno spettacolo muto, tra mimo e teatro danza, nel quale i tre attori recitano coi volti coperti da maschere su cui sono abbozzati, in maniera sintetica, i tratti fisiognomici dei diversi personaggi. Ne risulta una interpretazione tutta affidata al linguaggio del corpo, attraverso il quale rendere il susseguirsi degli eventi narrati nella storia, con il supporto fondamentale dell’accompagnamento musicale, che arricchisce e connota i singoli momenti dello spettacolo. I sentimenti, gli stati d’animo e le pulsioni messe in scena sono le stesse che abbiamo provato tutti nei nostri primi anni di vita. In tal senso, ‘Childs’ play’ ha il merito di proiettare lo spettatore nel proprio passato. Lo spettacolo regala la possibilità di rivivere, con non poca nostalgia, un momento della propria esistenza, in cui il tempo non passava mai, in cui tutto appariva nuovo e di vitale importanza e durante il quale si possedeva ancora intatta la capacità di esprimere i sentimenti in maniera autentica e sincera: un’abilità persa con il progressivo ingresso nell’età adulta, con le sue convenzioni e costrizioni. Per questo motivo, è pressoché immediato il legame di empatia che si prova nei confronti dei tre bambini: Rosalin, Lilac e Himmel. Al momento dell’ingresso in sala troviamo un’anziana signora, anch’essa dotata di maschera che, dapprima immobile, si anima quasi in forma di marionetta e, pulendo il parco, introduce lo spettacolo. Fa dunque il suo ingresso Lilac, la quale, in compagnia della bambola Dorothy, per la prima volta affronta il parco giochi. Timidissima, insicura e impacciata incontra Roselin, ben più socievole e sicura di sé, che prima di accettarla come amica ne testa i limiti, prendendola in giro. L’arrivo di Himmel rompe l’equilibrio. Anch’egli, segretamente, adora le bambole, ma non lo da a vedere. Dorothy è l’oggetto del desiderio di tutti e la sua scomparsa porterà i tre bambini a intraprendere un viaggio di ricerca, durante il quale vengono messi ulteriormente a fuoco i profili dei singoli personaggi. Il bisogno di accettazione, la voglia di mettersi in mostra o il desiderio di seguire i sogni più reconditi espressi dai tre bambini sono gli stessi che abbiamo provato tutti noi. Lo spettacolo sottolinea, inoltre, l’elemento fondamentale del gioco come strumento sociale di aggregazione. A questo si aggiunge il ruolo della fantasia, che dilata il tempo e la realtà, permettendo, per esempio, che un semplice stura-lavandini divenga all’occorrenza una spada, una pistola o una candela. Per volontà degli stessi autori, lo spettacolo vuole mostrare il divario esistente tra il comportamento che la società si aspetta da noi e quello che, invece, siamo e desideriamo davvero. L’interpretazione dei tre attori è rimarchevole e la costruzione dello spettacolo ben riuscita, funzionale nella misura in cui, pur senza l’ausilio della parola, si riesce a coinvolgere lo spettatore tramite una felice inventiva e una puntuale caratterizzazione dei personaggi. Tutto molto bello.
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