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26 Aprile 2024

Allenarsi a levarsi

di Silvia Mattina - smattina@periodicoitalianomagazine.it
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Allenarsi a levarsi

Al Teatro Studio Uno in Roma è andato in scena, lo scorso fine aprile, uno spettacolo ‘tsunamico’ ed enigmatico: un monologo che ha saputo andare oltre la chiamata all'abbandono della ricchezza professato da San Francesco, per approdare nei meandri più oscuri della personalità, fino a concludersi in un relativismo gnoseologico senza possibilità di ricorso in appello

Lo spettacolo di e con Giuseppe Mortelliti intitolato 'Allenarsi a levarsi', andato in scena a fine aprile presso il Teatro Studio Uno di Torpignattara, in Roma, è un vorace meccanismo di contrasti, di lotte viscerali e ancestrali dell'Io più recondito e nascosto. Non c'è scampo alla resa dei conti: l'individuo è ciò che porta con sé nel cammino della vita. E il proprio bagaglio è pieno di idee e orpelli, che ostacolano la pienezza del vivere. Nell'affrontare il proprio quotidiano, l'essere umano è allenato a piccoli e grandi doloAllenarsi_a_levarsi2.jpgri, ma non riesce, al contrario, a liberarsene, arrivando a domandarsi: come fare per elevarsi e raggiungere la leggerezza? Mortelliti prova a dare una risposta nel rapporto ‘maestro-allievo’, tra saccente e discente: una dualità che introduce bene, inizialmente, la complessità dell'argomento, salvo poi sparire progressivamente nel corso dello spettacolo, a lasciar disadorno il racconto. Per comprendere la natura del rapporto ‘maestro-allievo’, il regista porta in scena contaminazioni orientali e occidentali: l'attore veste i panni di un samurai e si muove sulla scena tra canne di bambù a ricreare un piccolo ‘giardino zen’, mentre sullo sfondo una torretta si trasforma in un teatrino per uno spettacolo di burattini. Il risultato è un “carnaio poetico e filosofico”, nel quale le ‘zavorre’ che l'individuo ha accumulato nel passato sono indagate nel ritmo incessante dell'alternanza di registri: serio e faceto, poesia e prosa, cliché del presente e nozioni assolutistiche.“Il passato non è vivo e il presente è solo gente”, ripete l'allievo al maestro e viceversa. Una semplice frase che diviene quasi un ‘mantra’, una formula magica per abituare la mente a razionalizzare la circolarità del tempo, proponendo una direzione e una misura ben precisa. A questo punto, l'allievo deve staccarsi dalla propria figura guida, per procedere alla ‘shuhari’. Il vocabolo giapponese fa riferimento a precise azioni: “rispettare” (shu), “infrangere” (ha) e “staccarsi” (ri). È inevitabile, dunque, il distacco dal maestro e, nella riflessione finale sulla morte, tutti gli spettatori divengono allievi della vita e sono chiamati a non imitare le forme del passato, ma a superare il riferimento all'Io. Infine, la sofferenza prende il sopravvento e l'allievo sembra provare l'insanabile mestizia del distacco da cose, situazioni e legami per arrendersi al nichilismo finale. La famiglia, il cibo, la fotografia e il viaggio sono spaventosi ‘mostri’, che alimentano tremende ossessioni e forti debolezza, rallentando l'applicazione di quelle pratiche ascetiche indispensabili per il raggiungimento del carattere inevitabile “dell'impermanenza”. Sul palco, Giuseppe Mortelliti non si risparmia e conferma le sue ottime doti di attore che, in modo giocoso e profondo, non toglie ma aggiunge altri interrogativi nel ricordare il passato e nel ‘civettare’ al futuro.

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LE FOTO UTILIZZATE IN QUESTO SERVIZIO SONO DI ALESSIO TREROTOLI PHOTOGRAPHER

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