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27 Aprile 2024

Apartheid: ai confini del mondo

di Annalisa Civitelli
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Apartheid: ai confini del mondo

Al Teatro Hamlet di Roma, Mamadou Dioume, Patrizia Casagrande e Massimo Secondi hanno recentemente proposto uno sguardo sulla politica di segregazione razziale della minoranza bianca sulla popolazione nera in Sudafrica, abolita solamente nel 1990 con la liberazione di Nelson Mandela

Ispirato a ‘Età di ferro’ di John Maxwell Coetzee, scrittore e saggista sudafricano, premio Nobel per la letteratura nel 2003, questa rappresentazione prende spunto dalla storia della protagonista del romanzo, Elizabeth Curren, ma anche dalla nascita del ‘Market Theatre’ di Johannesburg. Una pièce di tutto rispetto. Potremmo anzi definirla un prodotto di ‘nicchia’, poiché racconta un contesto sociopolitico disumano, generato da lunghi decenni di sprezzante separazione tra minoranza bianca e maggioranza nera all’interno della Repubblica del Sud Africa. Nella fase crepuscolare di tale dominio razzista, una ricca signora inglese descrive la propria vita da emigrata in Sud Africa, dove ai tempi del colonialismo l’alta borghesia biritannica pensava addirittura di ricostruire una nuova Inghilterra. All’interno della scenografia, curata da Christian Valentini, un ambiente di vera e propria casa padronale, si muovono i tre interpreti: esterno e interno si congiungono, facendo sì che lo spazio diventi unico e gli elementi di scena siano altamente funzionali, definendo in tal modo i gesti più simbolici, o ricchi di significato. ‘Apartheid’, in effetti, fa parte di un esperimento a cui la regista, Gina Merulla e lo stesso Dioume, credono molto. La stessa decisione di metterlo in scena all’Hamlet si collega all’idea di trasformare, in futuro, questo spazio culturale in un punto nevralgico del ‘Teatro di ricerca’ aperto a tutti, anche ai non professionisti del settore, al fine di garantire maggiori possibilità formative rivolte ai giovani o a singoli attori. Ecco spiegato l’inserimento nel cast di questo spettacolo di Massimo Secondi nei panni di Barney, fondatore del cosiddetto ‘Theatre of the struggle’. Il tono della recitazione inizialmente è ‘imbarazzato’. Tuttavia, il giovane mano a mano comincia a entrare nella parte, sperimentando se stesso tramite il metodo del teatro-nel-teatro, per poi mettersi in contatto con gli attori in scena. La protagonista, interpretata da Patrizia Casagrande, riflette invece stati d’animo complessi. In quanto anziana e sola, è carica di astio verso la società che la circonda. Dal carattere duro, nutre rancore, ma tra nostalgia e ricordi ci lascia immaginare ogni dettaglio dei suoi monologhi. La ricca signora s’imbatte in un uomo nero e muto, il quale, affamato, riceverà cibo e sarà, oltre che l’ombra dell’ereditiera, anche il suo ‘specchio’. Dioume è così in grado di tradurre, grazie all’energico linguaggio del corpo e le espressioni del volto, le emozioni e le sensazioni che vengono espresse. Lo spettacolo, dunque, si costruisce anche sull’uso del corpo e non solamente su un testo poetico, ricco di metafore e ripetizioni, scritto dalla stessa Merulla. Nulla è lasciato al caso: il contesto dell’imperialimso inglese e l’idea che i ricchi hanno nei confronti della servitù sciatta, disegnano una società indifferente, priva di sensibilità. Gli stati emozionali scaturiscono soprattutto dall’ottimo timbro di voce dell’attrice, la quale non perde mai il ritmo recitativo, concentrando nei toni tutta la sua fermezza. La recitazione, altresì, s’incastra alla perfezione con i monologhi in francese di Mamadou Dioume. Sullo sfondo, invece, alcuni video sottotitolati proiettano la traduzione in italiano. L’idioma straniero è stato reso comprensibile grazie all’uso di una terminologia semplice, accentuata dalle gestualità forti, energiche, possenti dell’attore, adatto a un qualsiasi tipo di pubblico. La musica, anch’essa, si accosta al registro della pièce: i brani del violoncellista, Steven Sharp Nelson, sono inerenti sia all’ambientazione, sia come unico sfondo di alcune scene interamente imperniate sulle movenze degli attori. Alcuni suoni sono provocati dagli elementi scenici, mentre l’apertura della rappresentazione, invece, è molto evocativa: Dioume, senegalese di nascita, intona un canto tradizionale in lingua wolof, il dialetto più parlato in Africa occidentale dalle popolazioni del golfo di Guinea. Entra in scena e, accovacciandosi in un angolo, intona ‘a cappella’ i ritmi liberatori tipici dell’Africa e, con le mani, 'solfeggia' il proprio tempo musicale. Immediatamente, s’intuisce il luogo in cui si svolgerà l’azione. Il messaggio che ci viene dato è che la cultura può cambiare il mondo: dove non esiste la Storia, bisogna creare qualcosa. Verso la fine di ‘Apartheid’, tutta la forza espressiva confluisce nella costruzione del sogno, caratterizzando uno spettacolo equilibrato, dalla regia essenziale, come un lavoro meticoloso ed elevato. Attraverso i quadri rappresentati, si chiude grazie a una scena emblematica e suggestiva, in cui viene convogliato tutto il senso della rivoluzione e della rivolta, che testimoniano un cambiamento sociale ormai in atto. Un lavoro che emoziona, ma che soprattutto induce a riflettere su come la qualità artistica possa farsi portavoce di un qualcosa in cui credere ancora.

Apartheid
Teatro Hamlet
Testo e regia: Gina Merulla
Interpreti: Mamadou Dioume, Patrizia Casagrande e Massimo Secondi
Luci e fonica: Fabrizio Facchini

Scenografia: Christian Valentini
Costumi: Agnese Pizzuti

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NELLA FOTO: MAMADOU DIOUME

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