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26 Aprile 2024

‘I Fisici’ di Dürrenmat: l’anima grottesca di un cinico idealista

di Emanuela Colatosti
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‘I Fisici’ di Dürrenmat: l’anima grottesca di un cinico idealista

Giallo e insieme commedia, il dramma del 1962 è un’opera del drammaturgo di Stalden ancora attualissima, rivestita di una comunicatività più contemporanea grazie a variazioni stilistiche interpretative

L’intento di Eugenio Banella e Laura Grimaldi di portare sul palco del Teatro Trastevere lo svizzero Friedrich Dürrenmat, un autore che non ha mai preso posizioni al di fuori della propria, denota coraggio. Come audaci risultano le diverse scelte registiche che hanno permesso di avvicinare un testo ostico come ‘I Fisici’ alle strutture interpretative del pubblico odierno. A priori non c’è niente di sbagliato nel farsi aiutare da intrusioni contemporanee, al fine di rendere digeribile, dal punto di vista teatrale, lo scrittore de ‘La morte della Pizia’. Un giallo ai tempi della guerra fredda, estremamente politico, per quanto l’elvetico non abbia mai preso una posizione definita. Perfettamente sulla scia dell’amore che aveva per il ragionamento scientifico, il teatro diventa un tavolo di laboratorio su cui elaborare ipotesi, alla luce del ‘come se’. Cosa accadrebbe, se qualcuno scoprisse ed elaborasse “il sistema di tutte le invenzioni possibili”? Un’ronia sferzante e cinica, quella del drammaturgo svizzero, che si traduce in una comicità sottile, dal punto di vista intellettuale, ma grottesca nel materializzarsi e nell’attuarsi sul palcoscenico. I due atti de ‘I Fisici’ prendono forma nello spazio unico della sala comune de ‘Les Cerisiè’, casa di cura per malati mentali. Muri neri, porte bianche e quadri vuoti contribuiscono alla creazione di un’atmosfera surreale. La caratterizzazione sul palco della signorina Von Zahnd, direttrice del manicomio, risulta completa e impenetrabile fino alla fine. Vergine e nubile, ultima erede di una famiglia gloriosa, il disco della sua parte indugia su quella sezione di copione in cui decanta le gesta dei suoi avi, di cui lei sembra rappresentare geneticamente la sintesi perfetta. I suoi monologhi trovano ad accoglierli davvero ‘bianche cornici’, prive di qualsiasi profilo. Il grottesco emerge da ogni personaggio e da ogni relazione. A partire dalla gobba della signorina Von Zahnd (Guia Scognamiglio), che stupisce in quanto accompagnata dal portamento elegante, ben ritagliato sulla fisicità dell’attrice, affiancata dall’inquietante e ingombrante presenza di Lorenzo Garufo, che palesemente risulta essere più un guardiano che un infermiere di un manicomio. Grottesca è la comprensione da cui è generato un amore ai limiti dell’impossibile, quello tra Monika Stettler (Alessandra Tito) e il dottor Möbius, sottolineato da luci che, se pur suggestionanti, spesso non cadono come dovrebbero. La caricaturale signora Rose, già signora Möbius, che Laura Grimaldi rende carica di tic nervosi, che sarebbero apprezzati a pieno se timbrati maggiormente, completano un impasto in cui un senso semplice della religiosità si sposa con l’opportuI_Fisici_foto2.jpgnismo necessario alla sopravvivenza. Anche il senso di giustizia impersonato dal lucido ispettore Voß, che interpretato da Emanuele Natalizi è una delle perfomamces più riuscite della pièce, risulta infine ingenuo e innocente. La voce dell’appuntato si fa chiaroveggente: “È negli occhi dei pazzi che si situa il destino del mondo”. Una verità che si capovolge dialetticamente diverse volte, prima della fine della commedia. Il rapporto tra Einstein (Andrea Papale) e il suo violino, tra Newton (Eugenio Banella) e i bisogni naturali insopprimibili, estinti direttamente sul palco, si carica di competizione durante tutto l’arco narrativo. Un antagonismo isterico, che distingue l’impersonificazione ai limiti dell’isteria di Einstein, dell’esaltazione autocompiacente per Newton, dalla complessa resa attoriale del personaggio principale, il dottor Möbius, interpretato da Alessandro De Feo. Il criterio di verosimiglianza con cui prende corpo e voce lo stravagante fisico sul palco, fa oscillare compulsivamente la caratterizzazione tra il comico e il drammatico. Presunto ultimo discepolo di Re Salomone, il dottore, intorno al quale ha ragion d’essere tutto lo spettacolo, si atteggia a sacerdote quando enuncia sermoni, a vate quando cade in una trance scandita dall’elettronica della colonna sonora. Un inserto ‘ipermoderno’, che dà una lettura contemporanea del grottesco di Dürrenmat. Eppure, dietro la sagoma dei paradossali accostamenti adottati dalla regia di Eugenio Banella, si allunga l’ombra di reticenze. Se l’adattamento del testo si presenta senza imperfezione alcuna, alcune sbavature sono videnti nell’utilizzo di luci e musica. Soprattutto quest’ultima, che rischia di coprire quasi del tutto la vocalizzazione degli attori, quando non timbrata a dovere. Impossibile non notare uno scollamento tra gli abiti interpretativi di Möbius e quelli di tutti gli altri personaggi. Se l’obiettivo registico da conseguire era l’estraniamento, dato dalla contrapposizione tra il verosimile e la farsa vera e proprio, esso è stato ampiamente conseguito.

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NELLA FOTO QUI SOPRA: L'ISPETTORE VOß INTERROGA L'INFERMIERA STETTLER

AL CENTRO: LA SIGNORINA VON ZAHND E LA SIGNORA ROSE

IN ALTO A DESTRA: LA LOCANDINA DELLA COMMEDIA

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