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25 Aprile 2024

Una rigenerazione troppo 'ideale'

di Francesca Buffo
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Una rigenerazione troppo 'ideale'

Un lavoro ironico e intelligente di Patrizia Schiavo, che utilizza il teatro come ‘spunto’ di rinnovamento psicologico e persino antropologico del pubblico, chiamato a interagire con gli attori in scena: una forma di democrazia ‘inclusiva’ che in Italia rischia di rimanere perennemente ‘impigliata’ tra doppiezze ed estemporaneità   

Ideato e diretto da Patrizia Schiavo, la ‘Casa di rigenerazione’, andato in scena nei giorni scorsi presso il ‘Teatrocittà’ di Torrespaccata in Roma (ultima replica, domenica 29 gennaio 2017, alle ore 19.00) a prima vista sembra quasi una ‘terapia di gruppo’. Le cose non stanno esattamente così: una serie di attori si mescolano con il pubblico, invitandolo e aiutandolo ad aprirsi. Ovviamente, ‘salta fuori’ di tutto: c’è chi è ossessionato dal sesso; chi si sente 'intrappolato' in un’esistenza anonima e mediocre; chi attende, con speranza ma anche un po’ di paura, lo sbarco degli alieni. Tutto questo viene affrontato in maniera libera, leggera, ironica e scherzosa. Perché il vero concetto che sta 'a monte' di questo lavoro è la singola identità, il recupero della personalità più autentica delle persone. Le quali, rapportandosi con la finzione scenica, almeno per una sera ritrovano se stesse. La Schiavo gioca non soltanto con i contenuti ‘inconsci’, ma trasporta il pubblico in diverse ‘stanze’, al fine di mostrare le distinte potenzialità, mutualistiche e interpretative, del teatro, favorendo l’emersione dell’Io scherzandoci un po’ su. L’autrice riesce persino a individuare una versione burocratica dell’analisi psicologica, oltre a quelle più classiche di derivazione ‘freudiana’. Certamente, qui da noi il ragionamento diviene complesso: il tessuto culturale italiano è repressivo, contaminato da un cattolicesimo intermittente, qualunquista e dissimulatorio. Probabilmente, se le ‘parcelle’ degli psicologi fossero più contenute, si potrebbe assistere a una parziale accelerazione dei costumi, degli atteggiamenti e delle nostre convenzioni sociali. Purtroppo, questo tipo di esperimenti, a mezza strada tra la rappresentazione artistica e la ‘self-analysis’, qui da noi realizzano un ‘effetto-specchio’ che toglie qualcosa alle finalità antropologiche, generando un risultato transitorio, estemporaneo, non supportato da una struttura culturale stabile ed equilibrata. Culture più laicizzate e razionali appaiono maggiormente ‘compatibili’ con l’arte in quanto momento di ‘pura soggettività’. I vari monologhi dei singoli attori dimostrano empiricamente quanto andiamo dicendo: il ragionamento, assolutamente corretto, della cuoca, che giudica il cibo ‘vegano’ come l’ennesima ‘orientalata’ all’ultimo ‘grido’, si richiama a una ricerca di maggior genuinità di usanze domestiche, sapori e, persino, odori che rischiano di andare perduti. Ma in un Paese come l’Italia, in cui il cibo è praticamente oggetto di ‘culto’, ciò finisce con lo ‘sfondare’ una ‘porta aperta’, sovrapponendosi in automatico con la variabile e incostante mentalità dei singoli individui. Un modo di approcciarsi ai problemi, quello della società italiana, che proprio non riesce a liberarsi dalla superficialità e dall’ipocrisia, poiché convinta, ancora oggi, dell’esistenza di verità automatiche, anziché impegnarsi a cercarne di nuove. Nell’incontrare culture ‘altre’, basate su una modernità 'mittle-europea' più avanzata, in cui tutto ciò che è vero risulta tale senza eccessive ‘mescolanze’, ecco che l’effetto cercato diviene più concreto e consapevole, poiché ‘fissa’ alcuni princìpi di umanità, identità ed effettiva sincerità che permettono il recupero della fantasia, della distinzione, dell’originalità personale. Il tradizionalismo italiano, con i suoi sofismi e le sue dissimulazioni, paradossalmente finisce col mimetizzarsi tra le buone intenzioni di una rappresentazione trasformata in un ‘compromesso’, che non solo non rappresenta la sola e unica ‘via’ di ‘apertura’ sociale, ma rischia di replicare, in forme nuove, doppiezze e duplicità. Innanzi a culture sociali più concise, già da tempo sintetizzate in forme coerenti di razionalità, ogni sincretismo tra teatro e pubblico riesce a ottenere effetti ben più ‘congrui’. Ciò non toglie nulla, ovviamente, al valore artistico del lavoro pensato e ben diretto da Patrizia Schiavo, sia chiaro: in merito a questo punto, speriamo vivamente di non essere ‘fraintesi’. Non c’è nulla di male nell’esporre le particolarità, le stranezze, i ‘guizzi’ e persino i masochismi dei ‘teatranti’: è il pubblico italiano a non essere adatto, a non ‘andar bene' per simili metodi di ‘autoanalisi’. Va benissimo spogliarsi dei propri problemi, al fine di aprirsi a una critica superatrice di traumi, cicatrici e angosce: sono gli italiani a non volersi guardare, più di tanto, allo 'specchio', a rifiutare ostinatamente di andare a constatare i propri difetti più profondi. Soprattutto in questi anni, in cui tutti quanti attendiamo che "passi ‘a nuttata", per dirla con Eduardo. Uno spettacolo utile e formativo, probabilmente, per le generazioni più giovani, allorquando non devastate dalla ‘piattezza logica’ del nostro ‘familismo amorale’ nazionalpopolare. Ma sottolineare una questione qualsiasi e i vari modi per aggredirla a un pubblico ‘medio’ che nei problemi ama ‘sguazzarci dentro', spesso al fine di utilizzarli in maniera opportunistica, oppure in attesa che le cose si risolvano da sole, grazie a interventi paternalisti o addirittura ‘provvidenzialisti’, rischia di risultare uno ‘sforzo’ che gli italiani non meritano più. E che, forse, non hanno mai meritato.

Teatrocittà
Casa di rigenerazione
di Patrizia Schiavo
Compagnia: Gruppo Cnt-Lab
con: Patrizia Antinozzi; Teresa Arena; Sergio Bellelli; Alice Cappella; Marco De Matteo; Silvia Grassi; Carmen Matteucci; Roberta Marcucci; Angela Montagna; Andrea Palmacci; Francesco Paolesse
Regia: Patrizia Schiavo

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