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4 Ottobre 2024

Bernardino Fantini: "Non abbiate paura della genetica"

di Serena Di Giovanni
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Bernardino Fantini: "Non abbiate paura della genetica"

Fino al 18 giugno 2017, il Palazzo delle Esposizioni di Roma ospita ‘DNA: il grande libro della vita da Mendel alla genomica’, una mostra didattica ricca di contenuti che abbiamo avuto l’occasione di vedere in anteprima attraverso il punto di vista dello storico Bernardino Fantini

Quella di Palazzo delle Esposizioni è una rassegna che consideriamo imperdibile, sia per i turisti, sia per i cittadini della capitale. Curata dallo studioso Bernardino Fantini insieme a Telmo Pievani, Sergio Pimpinelli e Fabrizio Ruffo, l’evento è stato concepito e realizzato in occasione dei 150 anni dalla pubblicazione delle leggi di Gregor Johann Mendel, coinvolgendo importanti scienziati, accademici e ricercatori, tra cui 5 premi Nobel. Genio incompreso, nato nell'epoca e nel posto sbagliato, il frate agostiniano, cresciuto in un piccolo villaggio della Moravia, è considerato il padre fondatore della genetica, un ramo avanzatissimo della scienza, che ha trasformato per sempre il nostro modo di intendere la natura. La mostra prevede 7 sezioni che affrontano svariati argomenti, tra i quali: le leggi dell'ereditarietà; la genomica; le malattie ereditarie; l'attrazione e la repulsione verso l'idea di conoscere tutti i segreti del nostro genoma; le ambizioni di mortalità e l'uso del Dna nell’investigazione. Organizzata in due grandi ‘blocchi’, una prima parte è dedicata alla ricostruzione della figura di Mendel, definito “un botanico con lo sguardo nel futuro” e ad approfondire il concetto del ‘Dna quale libro della vita’ sotto il profilo storico; una seconda parte, invece, affronta argomenti più tecnici e specifici, entrando nel vivo di questioni tanto attuali, quanto ‘spinose’, come per esempio la clonazione o l’uso delle staminali per la cura delle malattie rare. Nel corso di un nostro scambio di opinioni con il professor Bernardino Fantini, abbiamo avuto la possibilità di sottoporgli qualche specifica domanda nel merito scientifico della rassegna.

Professor Fantini, qual è la ‘genesi’ di questa esposizione?
“La mostra è nata da una nostra proposta in occasione del centenario delle leggi di Gregor Mendel (150 anni nel 2015). Vi abbiamo lavorato in 4: io, Telmo Pievani, Sergio Pimpinelli e Fabrizio Rufo. Siamo andati a incontrare l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, il quale è stato subito entusiasta del progetto. E quindi siamo partiti, agli inizi del 2016. Abbiamo voluto raccontare ‘l’invisibile’ attraverso diversi strumenti: le immagini, i video, la scrittura, le grafiche e i cartoon, i reperti originali e le scenografie. Abbiamo voluto dare alla mostra un carattere estetico, non solo scientifico e didattico”.

Una sezione è dedicata alla clonazione animale, con il celeberrimo caso della pecora Dolly: cosa pensa, invece, della clonazione umana?
“Il problema della clonazione apre una serie di questioni interessanti. Non tutti immaginano che la clonazione sia, per esempio, molto utile per la sperimentazione dei farmaci. Mi spiego meglio: se io sperimento un farmaco su diversi topi di laboratorio non avrò mai una reazione certa e univoca, in quanto ogni topolino è diverso dagli altri. Ma se io ‘clono’ il topo, posso avere mille topi identici a esso, sui quali poter sperimentare senza alcuna ‘variabilità genetica’. Inoltre, si può anche clonare un organo: prendere una cellula del fegato e ricostruire un fegato intero, per esempio. Abbiamo dedicato una stanza a tutti gli animali clonati. Della pecora Dolly abbiamo una parte del suo scheletro e un maglioncino fatto con la sua lana: il vello della figlia di Dolly - clonata da Dolly - e una ‘maschera’ della famosa pecora. Quanto, invece, alla clonazione umana, non ne vedo l’interesse. E, soprattutto, non si capisce con quale criterio potremmo scegliere l’essere umano da clonare. È un procedimento tecnicamente possibile, ma eticamente pericoloso, senza alcun reale vantaggio scientifico”.Dna.jpg

In mostra si parla anche di ‘organismi geneticamente modificati’ (ogm), rispetto ai quali c’è sempre un po’ di scetticismo, dovuto forse alla scarsa conoscenza del tema. La mostra offre, invece, una ‘prospettiva’ diversa – più positiva – dell’argomento, sfatando alcuni ‘falsi miti’: ce ne vuole parlare? 
“Gli ogm, in realtà, hanno avuto un ruolo importante nella ricerca scientifica: per esempio, hanno permesso di produrre in modo sicuro vaccini e ormoni, come l’insulina. In passato, i malati di diabete venivano infatti curati con l’insulina di maiale, spesso ricca di impurità tali da creare delle reazioni negative, che a volte costringevano a sospendere la terapia. Inserendo il gene umano per l’insulina nel batterio ‘Escherichia Coli’ si è creato un ogm che, oggi, fornisce insulina umana pura. Nella mostra abbiamo voluto rendere omaggio ad alcuni premi Nobel che hanno fatto delle importanti scoperte in questo senso. Come Frederick Sanger, che ha sequenziato l’insulina. L’utilizzo di ogm in agricoltura, invece, ha spesso suscitato grandi polemiche e dibattiti sui presunti danni alla salute, o sui rischi di contaminazione e di riduzione delle biodiversità. In verità, l’uomo modifica il genoma degli organismi dall’inizio della sua storia: lo abbiamo fatto con alcune specie vegetali, per esempio. Nell’esposizione abbiamo voluto dimostrare che tutto ciò che è naturale è ‘immangiabile’. O, meglio ancora, che tutto quello che mangiamo è ‘artificiale’. La differenza tra naturale e artificiale, in tal senso è inesistente. Gli agrumi, le melanzane, i pomodori sono il risultato di incroci e selezioni ‘artificiali’: non sono esistenti in natura. Il chinotto è una mutazione dell’arancio amaro. E il limone non esiste in natura, poiché è un incrocio tra l’arancio e il cedro. Inoltre, il pomodoro che si coltiva nella Pianura Padana è diverso, geneticamente, da quello che si coltiva nel sud d’Italia”.

Avete voluto parlare anche di ‘PaleoDna’ e dei ‘cacciatori’ di ‘Dna antico’. Ci chiediamo: sarà possibile, in futuro, riportare in vita specie animali oramai estinte?
“Negli ultimi anni, lo studio del Dna ha investito anche le ricerche sull’evoluzione umana. In particolare, dagli anni ottanta, lo sviluppo di metodi per ottenere Dna da reperti fossili ha permesso confronti prima impossibili. Da quando, nel 1997, è stato estratto un primo Dna antico dell’uomo di Neanderthal, le tecniche si sono ulteriormente raffinate: pensiamo al lavoro dei ricercatori di Lipsia, che nel 2006 hanno ricostruito circa il 60% del genoma completo di un Neanderthal, con il quale è stato possibile ipotizzare fenomeni di ibridazione e incrocio fra i Neanderthal e i primi Homo sapiens, probabilmente avvenuti nel vicino oriente. Se si può portare in vita una specie ormai estinta, come avviene nel film Jurassic Park? Certo, per alcune specie che si sono estinte di recente è tecnicamente possibile. Anni fa, in Siberia, è stato possibile rinvenire un piccolo mammut congelato, il cui Dna è praticamente integro. In Russia, si sta discutendo su come clonarlo e ‘riportare in vita’ la specie. Gli australiani, invece, vorrebbero ‘resuscitare’ il tilacino, estintosi negli anni trenta del novecento. Altri, il piccione migratore americano, e via discorrendo. Dal punto di vista etico, sorgono diversi dubbi sulle possibili speculazioni commerciali di un’azione di questo tipo e sul reinserimento degli animali in ambienti ormai modificati”.

La mostra affronta anche il problema razziale e l’eguaglianza fra i popoli da un punto di vista ‘scientifico’: cosa ci dice la genetica a riguardo?
“In mostra si fa riferimento, in particolare, all’eugenetica, termine che indica le azioni sociali che potevano ‘migliorare o peggiorare’ le qualità razziali delle future generazioni, fisicamente e mentalmente. In particolare, dal 1904, la Carnegie Institution di Washington promosse la raccolta degli alberi genealogici di molte famiglie, per studiare l’ereditarietà di determinati caratteri fisici e psichici, in particolare caratteri come l’alcolismo, la degenerazione mentale e altri, perché erroneamente considerati facili da definire e determinati da uno o pochi geni ‘mendeliani’. Si tratta di ricerche che condussero alla promulgazione delle leggi per la sterilizzazione di persone con caratteri ‘devianti’, non solo nella Germania nazista, ma anche negli Stati Uniti e in Europa. Un vero e proprio controllo ‘razzale’. Oggi, tuttavia, sappiamo che il concetto di ‘razza umana’ non ha alcuna base genetica e biologica: in altre parole, non esiste. C’è poi un altro aspetto che mi preme sottolineare. E cioè che la ricerca della struttura genetica delle popolazioni umane ci ha detto che noi umani – pur nelle nostre diversità – abbiamo tutti lo stesso Dna per il 99,9%. In media, ogni individuo è diverso dall’altro per circa 3 milioni di lettere. A proposito di questa ‘unità nella diversità’, ci tengo a ricordare il messaggio del genetista Theodosius Dobzhansky, con il quale abbiamo voluto concludere la mostra, il quale invita a non confondere la diversità genetica con la ‘non uguaglianza’. Noi siamo tutti diversi, geneticamente, ma dobbiamo essere uguali davanti alla società, perché il concetto di uguaglianza è una costruzione sociale”.

Un principio molto democratico, professore: siete tutti così, voi scenziati?
“In linea di massima, sì. Lo scienziato è abituato a manovrare collettivamente. All’interno della società scientifica, le informazioni si scambiano in modo libero. E vengono sottoposte alla critica dei colleghi. Da questo punto di vista, la scienza è un modello di democrazia perfetta, in cui si condividono le informazioni. E oggi, tutto ciò è aiutato dal web. Pensiamo, per esempio, al problema della Sars, la sindrome acuta respiratoria grave: è una malattia infettiva che, qualche anno fa, ha fatto tantissimi morti. Si è sviluppata in Cina, dove inizialmente avevano nascosto il problema. Poi si è diffusa in Vietnam, dove è stata scoperta da un medico italiano, Carlo Urbani, che purtroppo è morto a causa della patologia stessa. La malattia poteva avere lo stesso effetto devastante della febbre spagnola nei primi decenni del XX secolo, ma è stata rapidamente arginata nel giro di 4 mesi. E sapete come? Attraverso l’isolamento e le quarantene, metodo antichissimo, ma soprattutto attraverso il web. L’Oms (l’organizzazione mondiale per la sanità, ndr) ha creato una rete sul web di 11 laboratori – i più avanzati nel campo – che si sono uniti e, nel giro di poche settimane, hanno ricreato la sequenza del virus e tutto il resto. Quindi, la combinazione tra vecchi metodi e nuove tecnologie ha permesso questo tipo di intervento tempestivo. Ma la cosa più importante è stata l’apertura del web e lo ‘scambio democratico’ delle informazioni”.

L’esposizione è chiaramente didattica: i temi affrontati sono molti e, talvolta, complessi. Cosa si aspetta che recepisca il pubblico generico da questa mostra e qual è il ‘messaggio globale’ che vorrebbe fosse colto?
“La cosa più importante è riuscire a convincere il pubblico intorno all’importanza di questi argomenti e sulla necessità che vengano studiati per comprendere meglio le dinamiche sociali contemporanee. Sulla genetica si stanno giocando destini importanti dell’umanità. E sarebbe fondamentale che la gente sapesse valutarli partendo dalle basi. Vorrei davvero che passasse l’idea che la genetica non è un qualcosa di cui si debba aver paura (in genere noi l’associamo alle malattie genetiche o a cose negative), ma qualcosa che ci consente di vivere meglio. L’idea, insomma, che esista un ‘libro della vita’ e che essa sia un ‘progetto’ che non ha nulla di meccanico, ma che dobbiamo rispettare, se vogliamo una civiltà pienamente realizzata”.

Bernardino Fantini è professore ordinario di storia della medicina e della sanità presso l’Università di Ginevra, dove ha diretto l’Istituto di storia della medicina e della sanità. È attualmente presidente dell’Istituto italiano di antropologia. Le sue ricerche si sono indirizzate, principalmente, alla storia della microbiologia e delle malattie infettive, della storia della biologia molecolare e delle relazioni fra musica, scienza e medicina. Ha scritto molti articoli sulla storia della malaria in Italia, sull’emergenza delle malattie infettive, sulla rivoluzione molecolare e sulla molecolarizzazione della medicina. Ha dedicato particolare attenzione all’espistemologia della biologia e della medicina, pubblicando diversi articoli sui concetti fondanti della biomedicina contemporanea: concetto di salute, definizione di morte, causalità, informazione.

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NELLA FOTO: IL PROFESSOR BERNARDINO FANTINI

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