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20 Aprile 2024

Il vuoto imperdonabile

di Elisabetta Chiarelli
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E’ quasi impossibile per chi subisce una violenza esprimere a pieno la sofferenza che l’abuso ha lasciato radicata nel suo cuore e che lo accompagnerà a lungo: in certi casi, per tutta la vita

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“La calunnia è un venticello…” recita un verso de ‘Il barbiere di Siviglia’ di Gioacchino Rossini. Per descrivere gli effetti della maldicenza, di ogni forma di abuso fisico e psicologico su chi lo subisce, bisognerebbe raccontarlo a occhi chiusi, affinché il peso dei ricordi possa riemergere nella sua interezza e dare forma ed espressione a quel dolore muto, che si annida in fondo all’anima. Perché, come dice Seneca, “il dolore più profondo non ha voce”. E’ quasi impossibile, per chi subisce una violenza, esprimere a pieno la sofferenza che l’abuso ha lasciato radicata nel suo cuore e che lo accompagnerà per tutta la vita. Quando riesce a parlarne, la sua stessa voce gli appare stonata, quasi estranea, a tratti frivola e, comunque, inadatta ad esprimere la profondità di quel lutto.
“Quando si manca a se stessi, tutto manca” afferma Goethe ne ‘I dolori del giovane Werther’. Ed è proprio così. Non è facile la vita della ‘vittima’: è una gran fatica. Perché per tutta la sua esistenza, il malcapitato o la malcapitata dovrà sforzarsi strenuamente di riempire un vuoto. Il vuoto di se stesso, di un’identità frantumata, interrotta. E’ come comporre un puzzle, le cui tessere sono disseminate ovunque. La rabbia è un lusso che non ci si può permettere, anche se è il primo approdo che viene in soccorso. Può diventare una droga, una dipendenza, perché attraverso essa non solo si prova a sfogare, seppur in modo del tutto sterile, il proprio dolore, ma ci si  illude di colmare il vuoto di quell’identità mancante, provando ostilità per un qualcosa o per un qualcuno che, a torto o a ragione, si sceglie come nemico.
Il perdono è escluso: questa parola è usata troppo spesso, come se rappresentasse un obbligo, per chi subisce una violenza. La vittima è sempre sgradita alla società: è la sua cattiva coscienza, il monito dei suoi fallimenti. Se si perdona, si dimentica e coDonna_alla_finestra.jpgsì tutti possono vivere in pace. In un’intervista di repertorio, la figlia di un noto giornalista ucciso dalle Brigate Rosse rammentava come, a fronte dell’esortazione collettiva, rivolta ai familiari degli uccisi, a perdonare, non vi fosse in realtà nessuno degli uccisori che quel perdono lo avesse realmente invocato. Ed è così, allora, che la vittima di un abuso resta sospesa in un limbo indeterminato per chissà quanto tempo, in attesa che accada qualcosa o che arrivi qualcuno a dare un senso a un’esistenza narcotizzata. E’ come rimanere intrappolati in un’eterna infanzia, in cui il trascorrere degli anni non è, in fondo, che un battito di ciglia, cullati tra un’anacronistica spensieratezza e una paralizzante paura per ciò che verrà, o che semplicemente si schiude al di fuori della propria piccola clausura.
Si continua a sorridere, a lavorare, a cercare di interagire con gli altri, ma senza mai riuscire a varcare quella barriera di fragilità, a condizione di non toccare e di non farsi toccare. Ma è forse questa la vita? Oppure, si dovrebbe assumere la forza, il coraggio di ricominciare, come se non si fosse mai stati feriti? E’ possibile? Noi crediamo che non sia più possibile perdonare del tutto gli abusi subiti. Se il sangue dell’innocente grida vendetta al cospetto di Dio, chi siamo noi comuni mortali per tentare un’impresa così ardua da risultare impossibile anche a Lui. Ma finché in noi sgorga la vita non è possibile resisterle. Vivere significa amare: amare se stessi in primis, riannodare i fili della propria anima. Tornare a percepirsi, in qualche modo a piacersi. Abbracciare quel bambino violato e chiedergli perdono per quell’amore negatogli e, infine, perdonarsi per non essere riusciti a compensare da prima quella mancanza, per aver tardato tanto a lottare. Perché se non è la vittima a risollevarsi, a riparare da sola il torto che le è stato procurato, nessuno al suo posto potrà farlo. Nella vita è così: quasi mai le conseguenze di un abuso vengono traslate dal danneggiato al danneggiante. Questo è un finale di difficile realizzazione, relegato al mondo delle favole, che un supremo studioso di diritto avrebbe definito “quasi giuridiche”. Ma se questo è il destino di una vittima, al contempo diventa la cifra del suo eroismo: può rappresentare l’anima stessa della sua missione. Perché convertire il male in bene è un miracolo quasi più grande che trasformare l’acqua in vino. Si guarisce nella lotta per riscattarsi e per riscattare tutti coloro che ne sono stati o ne potrebbero essere colpiti da quell'immane ingiustizia, combattendo affinché essa non abbia più a ripetersi. Nel comprendere questo, si capisce allora come il male subito acquisisce un senso solo se ciò che ci è stato tolto non eguaglia quanto ci è  stato donato e insegnato attraverso quella esperienza dolorosa. Perché - e il pensiero corre alle ultime parole di Amleto in punto di morte, nell’omonima tragedia ‘shakesperiana’ - comunque vada non si vive per odiare, per distruggere, ma per testimoniare.
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Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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