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19 Aprile 2024

Epas Calcio: fare centro con i ragazzi

di Francesca Buffo
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Epas Calcio: fare centro con i ragazzi

Insegnare il calcio ai bambini e vederli crescere, aiutandoli a diventare gli adulti di domani. In occasione dei festeggiamenti dei 30 anni di attività, Bruno Omar Gatta, segretario di Epas Calcio, ci racconta il lavoro educativo-sportivo, molto di più che 'giocare a pallone'. 

Quest'anno Epas calcio ha festeggiato 30 anni di attività: cosa significa per voi questo traguardo?

"Epas calcio è nata nel 1982 da un'idea di Pasquale Civello, padre del nostro attuale presidente Franco Civello. Trent'anni dopo noi siamo ancora qui e la nostra è una risorsa molto importante per il territorio”.

In tal senso, il vostro è un punto di vista privilegiato su come cambiano le generazioni: che differenze ci sono fra i ragazzi di ieri e quelli di oggi riguardo al calcio?

"Un tempo il calcio era intesa come attività puramente ludica. Oggi invece, lo sport è inteso più come attività agonistica. Per noi è importante rendere tutto ciò un'esperienza formativa: attraverso il divertimento e il lavoro di gruppo formiamo gli adulti di domani".

Fra i ragazzi che partecipano a Xfactor e i coetanei che giocano a calcio c'è il medesimo desiderio di emergere, di diventare dei campioni?

"Ai nostri livelli forse no, ma nel tempo e crescendo di livello (andando oltre le provinciali) sì. Il che non sempre è positivo, perché nei ragazzi si alimentano delle aspettative che possono rivelarsi grosse delusioni". 

Nell'ambito della vostra associazione come si inseriscono i ragazzi?

"Si inizia con la categoria micro che accoglie i bambini dai 4 ai 7 anni di età. In questo caso si tratta di intrattenimento ludico-sportivo dove il bambino impara le regole  fondamentali per poi proseguire nell'attività sportiva. Gli scarabocchi, invece, sono bambini più grandi (7-10 anni) e l'impegno che viene richiesto è maggiore, senza però tralasciare il concetto di divertimento. In questa fase si acquisiscono i fondamentali per 'passare' al campionato successivo, quello degli esordienti (11-12 anni). Si tratta di un passaggio importante: qui si gioca un  campionato e i ragazzi capiscono cos'è la vittoria ma imparano a vivere anche nella sconfitta un momento di crescita personale, e si creano le basi per affrontare il campionato vero e proprio. Il passaggio successivo è, infatti, entrare nella categoria giovanissimi (13-14 anni), ragazzi che stanno andando verso la maturazione sportiva (è lo spartiacque fra i giovanissimi e la fascia dilettantistica. Tutto questo percorso, è comunque per noi formazione sportiva ed educativa".

Voi lavorate molto con la comunità: com'è il rapporto con le famiglie?

"I genitori rappresentano per noi l'altra faccia della medaglia. I bambini e i ragazzi giocano e le famiglie svolgono una funzione molto importante. Noi siamo il gruppo sportivo dell'ex oratorio S. Francesco da Paola e dall'attività parrocchiale di un tempo abbiamo attinto tutti i valori che portiamo avanti oggi con il nostro lavoro, pensato anche come strumento di crescita della società. Come comunità, oltre ai genitori, abbiamo ottimi rapporti con alcuni enti che si occupano di minori, bambini e ragazzi stranieri non accompagnati. Ragazzi che attraverso il gioco si integrano con i loro coetanei bresciani. Il calcio è questo: esplorazione del prossimo, integrazione delle differenze, momento di condivisione e fonte di arricchimento per chi lo pratica".

Riguardo all'integrazione che esperienza avete con la disabilità?

"Il bambino disabile che vuole avvicinarsi al mondo del calcio può farlo tranquillamente, non esistono particolari barriere se non a livello di pratica provinciale. Fra i nostri ragazzi abbiamo un ipovedente (con una miopia fortissima) e un ragazzo con problemi di sviluppo fisico rispetto all'età anagrafica. Ho visto comunque in altre associazioni giocare ragazzi con problemi agli arti superiori. Per quanto possibile, è bene far vivere questa esperienza a un bambino perché è proprio questo il modo per affermare il concetto di diversamente abile anziché disabile. Oltretutto, nel lavoro di squadra, l'integrazione è completa, i bambini annullano le differenze".

Sotto il punto di vista educativo-formativo, secondo lei, è possibile agire anche sulle tifoserie che ad oggi rappresentano una spina nel fianco nel mondo del calcio?

"Educare le tifoserie è possibile anche attraverso il lavoro delle associazioni. Quando noi andiamo in trasferta spieghiamo ai ragazzi che ovunque ci rechiamo dobbiamo 'fare bella figura'  e li esortiamo ad estendere il messaggio agli amici che li sottolineando che le tifoserie sono un'espressione diretta del grado di civiltà della società. Certo noi siamo una realtà tutto sommato piccola, ma non è mai capitato che un genitore abbia insultato l'arbitro o che ci siano stati litigi fra gli spalti del pubblico. È comunque partendo dalle piccole realtà che si possono cambiare le cose".

Ora che avete festeggiato i primi 30anni di attività Epas, vi siete posti nuovi obiettivi per il futuro?

"Intanto abbiamo la consapevolezza di aver lavorato e lavorare nel modo giusto. Siamo una delle poche società che non ha fatto fusioni, non ha cambiato il proprio nome. Abbiamo mantenuto l'ottica di fare tutto per i ragazzi in completa autonomia economica. Vogliamo quindi continuare far vivere questo sport alle prossime generazioni come esperienza formativa completa, nel modo più sano e corretto possibile".

Avete lungo il percorso visto crescere dei giocatori professionisti?

"Sì, due dei nostri ragazzi sono approdati al Brescia Calcio e una ragazza che gioca nel Brescia femminile".

Quanti anni ha il bambino più piccolo in Epas?

"È un classe 2006, mentre il più anziano è un ragazzo del 1979 (il primo tesserato dell'Epa) e gioca ancora da noi come primo portiere della prima squadra".

Visto che il presidente è un figlio d'arte, per voi il calcio è Epas per sempre?

"Direi proprio di sì, non riesco a immaginarmi proprio una vita diversa. La squadra che seguo, personalmente, l'ho vista crescere dalla categoria scarabocchi. Vedere i ragazzi così uniti è una soddisfazione indescrivibile. Durante i festeggiamenti abbiamo fatto un piccolo torneo e le squadre dei bambini sono state arbitrate dai ragazzi più grandi. Abbiamo visto un arbitro di 13 anni far rifare una rimessa spiegando prima al bambino il perché e mostrando come deve tenere la palla dietro la testa. Ecco questo ti fa capire che cosa significa insegnare questo sport".


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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