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29 Marzo 2024

Il mondo come un grande campo di battaglia

di Valentina Cirilli
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Il mondo come un grande campo di battaglia

Così come spesso accade per le opere dei grandi autori, ‘Battlefield’ del maestro Peter Brook anche a distanza di trent'anni ha ancora molto da dire

Sperando di poterlo vedere presto in uno dei nostri palcoscenici, ricordiamo l’allestimento di 'Battlefield': celebre spettacolo dell’ultima tournée della sua compagnia teatrale. Il grande regista britannico, Peter Brook, assieme alla sua fedele collaboratrice, Marie Hélène Estienne, di recente hanno ripreso in mano quest’opera che, nel 1985, al Festival di Avignone, si era imposta come un vero e proprio manifesto del teatro d’avanguardia: il ‘Mahabharata’. Tratto dal monumentale poema epico indiano filtrato dalla penna di Jean Claude Carrière, lo spettacolo aveva una durata di nove ore. Al centro del dramma, la guerra fratricida tra i due discendenti della famiglia Bharata: i Kaurava e i Pandava. Una lotta straziante e interminabile per la conquista del regno, che culmina in una vera e propria carneficina, la quale porterà i vincitori – chiamati a dominare un regno peter_brook_2.jpgdi morte e distruzione – a scorgere nella vittoria i segni evidenti della sconfitta. E coloro che sono stati vinti, a tormentarsi per non essere stati in grado di evitarla.
Peter Brook, ritornando sul ‘Mahabharata’, decise allora di cambiare alcuni aspetti alla luce del contesto attuale: non è infatti la lotta tra famiglie a essere rappresentata in ‘Battlefield’. Questa volta, il drammaturgo si concentra su un singolo frammento: il momento che segue il massacro; quel momento in cui le due parti si interrogano sull’eredità disastrosa che la guerra lascia dietro di sé. Evidenti e dichiarati sono gli intenti di riflessione sul nostro presente e sui grandi conflitti che lo attraversano, così come lo furono nel luglio avignonese del 1985. Tuttavia, la scelta di rappresentare l’episodio conclusivo dell’opera, il triste esodo della guerra, ci rivela che nei trent’anni che separano le due messe in scene, il punto di vista dell’autore è cambiato: lo spirito ottimista che all’epoca sembrava emergere cede il posto a uno sguardo cinico e disincantato, che si impone alla visione dello spettatore prefigurando scenari catastrofici, creati dal continuo e inevitabile ciclo di conflitti umani, i quali secondo Peter Brook, non avranno mai fine.
La ripresa del poema indiano si pone, dunque, come una risposta all’emergenza del momento storico attuale; ci disegna il ritratto di un’umanità lontana dalla ricerca del ‘dharma’, dell’ordine, unicamente tesa verso l’autodistruzione. Non si può fare a meno di pensare alla tragedia pandemica che ci troviamo a vivere.
La lettura al pubblico di quest’orrendo testamento dell’uomo diviene per l’autore un’urgenza, una necessità, che si traduce in scelte di messa in scenapeter_brook.jpg radicali, volte all’eliminazione di ogni componente scenica superflua, per un recupero dell’essenziale: l’elemento umano. Quattro attori in scena costituiscono un cast multiculturale dalla straordinaria capacità interpretativa, tale da riempire con la parola il vuoto dello spazio scenico: Jared McNeill, protagonista vittorioso; Carole Karemera, la madre colpevole; Sean O’Callaghan, il re cieco; Ery Nzaramba a rappresentanza delle vittime cadute. La preponderanza dell’estetica scenica, che aveva caratterizzato il primo ‘Mahabharata’, in ‘Battlefield’ scompare completamente, per rendere preponderante il contenuto filosofico. Di scenografia non vi è quasi traccia, a eccezione di alcuni bastoni che poggiano sul fondale, delle coperte dai toni caldi e della presenza costante, suggestiva e imponente, del musicista Toshi Tsuchitori, che con il tocco del tamburo giapponese ci restituisce gli accenti acuti e gravi dell’intera partitura drammaturgica. Con ‘Battlefield’, il regista Peter Brook concretizza tutte le sue teorie fondanti: l’idea di un teatro puro, di parola, espressa nel suo celebre scritto ‘La porta aperta’; e l’idea di un teatro sacro, ruvido e immortale, di cui parlava ancor prima ne ‘Lo spazio vuoto’. Il drammaturgo porta la sperimentazione e la ricerca di nuovi linguaggi al suo punto più alto: i pochi elementi ammessi sulla scena si caricano di significati simbolici chiari, precisi, grazie ai quali lo spettatore può con facilità ricostruire tutta la complessità dell’ambiente a cui l’autore fa riferimento: uno scenario arido e degradato. Ed ecco che un pezzo di stoffa può diventare un verme o un corso d’acqua. E quando avvolge il volto di un personaggio può arrivare a rappresentare persino la peggiore malattia dell’uomo moderno: l’indifferenza. Lo spettatore, attraverso la facoltà immaginativa e creativa, viene chiamato a farsi parte attiva e a dare un apporto rilevante all’intero momento scenico. E anche in ‘Battlefield’ si mantiene ben saldo quel rapporto indissolubile tra l’attore, il testo e il pubblico, che rappresenta l’essenza stessa del teatro di Peter Brook. Ciò che rimane da chiedersi è quale sia il reale intento che si cela dietro l’intera messa in scena: un invito all’azione da parte del singolo e di chi occupa i più alti vertici del potere? Un’amara e inevitabile accettazione dello stato presente delle cose? All’autore non interessa dare soluzioni salvifiche, né proporre armi che possano fermare il genocidio dei migranti, gli atti distruttivi di un popolo spinto dalla cecità della propria fede o la manifestazione quotidiana di quella parte di male che l’uomo porta con sé. Il grande invito che egli ci porge è quello di avere il coraggio di guardarli in faccia, di accorgerci di loro e di abbattere il muro dell’indifferenza che non ci permette di vederli.
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Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
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