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20 Aprile 2024

Immigrati: non solo cittadini di serie B

di Chiara Scattone
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Immigrati: non solo cittadini di serie B

Il 25% delle società che vedono la luce nella ricchissima Silicon Valley hanno tra i loro fondatori immigrati residenti negli States. Imprese come Google, Intel e Sun, ma anche piccole e medie attività imprenditoriali poste in essere e gestite dagli immigrati, che hanno mantenuto un livello di crescita più o meno stabile, creando posti di lavoro anche tempi così difficili.

Che gli immigrati fossero una delle risorse dei Paesi ospitanti lo avevamo compreso già da tempo. Ora però una recente ricerca americana, condotta tra il 1980 e il 2005, dalla Kauffman Fondation dimostra che le sole aziende che hanno creato veramente posti di lavoro sono state le società in fase di startup. La ricerca quantifica tale ricchezza specificando che i posti di lavoro effettivi, cioè quelli che hanno generato un incremento netto degli occupati, sono stati circa 40 milioni, contro le molteplici assunzioni compiute dalle grandi aziende americane, che invece di creare ricchezza, sono state utilizzate per spostare forza lavoro da un settore a un altro. Cosa c’entrino le piccole aziende americane e le società in fase di startup con gli immigrati negli Stati Uniti, è semplice: il 25% delle società che vedono la luce nella ricchissima Silicon Valley hanno tra i loro fondatori persone non nate negli Stati americani. Dunque, la ricchezza apportata dagli immigrati residenti negli States, sta dimostrando come in questi ultimi anni, a discapito della terribile congiuntura internazionale e della crisi economica che ha abbattuto molte delle più importanti imprese americane, le piccole e medie attività imprenditoriali poste in essere e gestite dagli immigrati hanno mantenuto un livello di crescita più o meno stabile, ma soprattutto hanno colmato la richiesta di posti di lavoro. Cittadini americani che lavorano per immigrati, questa sembra una realtà sempre più presente in tutti gli stati americani. Ma la difficoltà di ottenere la carta verde è una scure sempre presente che pende sulla testa di tutti gli immigrati che vorrebbero raggiungere la terra americana con buone idee imprenditoriali in tasca. La questione non è passata del tutto inosservata e gli operatori del settore, fiutata l’occasione, hanno deciso di passare all’azione e di non farsi sfuggire la possibilità di creare ricchezza in un momento di crisi come questo. Fondi di venture capital statunitensi e imprenditori hanno posto in essere un progetto azzardato ma concreto: finanziare le idee imprenditoriali degli immigrati, garantendo loro l’accesso alla carta verde e alla possibilità di risiedere negli Stati Uniti, realizzando la propria idea. La proposta è stata già presentata al Senato americano che a breve dovrebbe giungere al voto definitivo, dando probabilmente il via a questa iniziativa che si presenta innovativa e forse pionieristica nel suo genere: il visto per le startup. L’iniziativa non dovrebbe sorprenderci troppo: non è la prima volta che nel mondo vengono poste in essere attività di finanziamento all’impresa a favore di persone svantaggiate, basti ricordare l’idea di Muhammad Yunus che con la sua Grameen Bank (o Banca dei poveri) in pochi anni ha creato un impero economico-finanziario, ma soprattutto ha concesso la possibilità anche ai poveri di accedere al credito, fornendo loro gli strumenti necessari per fuoriuscire dalla situazione di indigenza e divenire economicamente autosufficienti. Investimenti simili hanno la duplice funzione, oltre a quella di produrre utili all’impresa capitalistica, anche quella di creare ricchezza nella società all’interno della quale tali iniziative vengono promosse. La Grameen bank, come tutte le banche è una società pro-profit, così come i fondi di venture capital statunitensi intenzionati ad investire in imprese gestite da immigrati. Lo scopo dell’economia difatti non dovrebbe essere unicamente quello di creare ricchezza fine a se stessa, ma di creare ricchezza anche a scopi sociali e solidaristici. Più una società è impegnata in attività imprenditoriali, più sarà alto il suo indice PIL e la ricchezza dei  suoi individui.

Anche in Italia si comincia a ‘investire’ sugli stranieri
L’idea di investire in imprese di immigrati non sembrerebbe essere solo un’idea degli americani, anche qui in Europa e in Italia si stanno compiendo i primi passi verso il finanziamento alle imprese gestite da cittadini provenienti da altri Paesi. L’interesse appare incentrato principalmente sui musulmani, che ormai rappresentano una fascia importante della popolazione europea, basti pensare che solamente nel nostro Paese i cittadini musulmani legalmente residenti sono circa 1,4 milioni, rappresentando circa il 2,5% della popolazione italiana nel suo complesso. L’interesse per i grandi investitori dell’area islamica appare oggi una questione di posizionamento strategico e politico, oltre che un mercato di riferimento particolarmente vantaggioso e ancora quasi del tutto ‘vergine’ del mercato bancario tradizionale. Questione strategica e politica soprattutto nell’ambito del progetto di Sarkozy dell’Union pour la Mediterranée, costituita nel 2008 con l’intento di creare un filo diretto tra l’Unione europea (e la Francia in primo luogo) e i Paesi arabi del Mediterraneo per sviluppare progetti di crescita economica e sociale: come la creazione di infrastrutture, la battaglia per il disinquinamento del Mediterraneo e la realizzazione di un piano solare mediterraneo (il Marocco di Muhammad VI nel 2007 ha dato il via a una gara di appalto per la realizzazione in pieno Sahara di impianti fotovoltaici, cui stanno partecipando banche e imprese italiane, tedesche e francesi).

I possibili interscambi con la finanza islamica
Ma è anche il mondo della finanza islamica a interessarsi all’Europa e all’Italia. Il nostro paese ha assistito nel corso degli ultimi anni a un progressivo affacciarsi, sul mercato economico, di imprese e banche arabe, pronte ad investire in società italiane, acquisendo piccole partecipazioni e creando strategiche parternship. Come per esempio quella sottoscritta tra la emiratina Mubadala Development Company e la Ferrari e la Piaggio, oppure quella tra la Libyan Arab Foreign Investment Company in Juventus, Fiat e in Tamoil (di cui la libica Oilinvest è proprietaria di una partecipazione nella Tamoil Italia Spa).
Quello islamico è un mondo finanziario che oggi più che mai rappresenta un modello da imitare e perseguire, nel quale in questi due anni di pessima congiuntura economica internazionale, banche e fondi di investimento hanno mostrato costanti guadagni e nessuno tentennamento, manifestando una stabilità invidiabile. La diffusione degli strumenti shari’a-compliant nel mondo arabo e ora anche in Europa (la Gran Bretagna è l’unico paese europeo nel quale è stata costituita la prima banca islamica europea, la Islamic Bank of Britain), diventa per l’Italia un’occasione da non farsi sfuggire, soprattutto perché oltre a rispondere a esigenze di competitività, potrebbe garantire ai nostri enti creditizi e alle nostre imprese di adeguarsi al trend internazionale.
Per ora alle tante belle parole spese da illustri economisti e professori universitari, nel nostro Paese non si è ancora arrivati a qualcosa di concreto. Già nel 2007 era stata annunciata la creazione del primo istituto di credito islamico italiano, così come nell’ultimo convegno tenutosi presso la Banca d’Italia alla fine del 2009 i soliti esperti si sono incontrati per discutere e convenire sulle sorprendenti performance degli istituti di credito arabo-islamici, ma fino a oggi nulla è stato realizzato. Eppure nel 2004 la Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, sulla scia dell’esperienza del Piano Manzil inglese, aveva lanciato il primo deposito free (privo di interessi), ma con premi in natura rapportati alla giacenza del conto, e pochi anni dopo ha promosso il c.d. Mutuo Extragentile, strutturato come un leasing immobiliare in linea con il contratto islamico di ijara, che prevede una durata tra i 20 e i 30 anni e la possibilità di riscattare il bene al termine del contratto. Dopo questa esperienza ben riuscita però non si sono verificati altri casi di ‘finanza gentile’, se non la promozione da parte di alcune banche nazionali – vedi il Monte dei Paschi e banca Carige – di conti corrente free o light (cioè privi di interesse) con la documentazione tradotta in arabo.

 

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Gli strumenti shari’a-compliant
In Germania, già dal 2004 nello stato federale della Sassonia-Anhalt sono stati emessi i primi sukuk o obbligazioni islamiche, per un valore complessivo di circa 100 milioni di dollari. Dal 2006 invece in Svizzera a Ginevra è operativa la Faisal Private Bank; mentre nel 2007 la Fortis Bank, prima banca belga, ha lanciato un fondo di investimento shari’a compliant, il ‘Fortis B Fix 2008 Islamic Index 1’, legato al Dow Jones Islamic market Titans 100.
 
freccia3.jpgIl Piano Manzil inglese
È stato il primo progetto di finanza islamica proposto in Europa da una società finanziaria inglese che prevedeva il finanziamento per l’acquisto della prima casa mediante appositi contratti shari’a compliant riservati ai musulmani immigrati. Dall’esperienza e dall’enorme successo del Piano Manzil è nata la Islamic Bank of Britain.

freccia3.jpgConti corrente free o light
I conti correnti privi di interesse, non potendo garantire un utile annuale fisso basato sulla giacenza del deposito e il tasso di interesse previsto, in alcuni casi prevedono la concessione annuale di premi in natura. Tale pratica non appare del tutto sconosciuta nella nostra esperienza bancaria, difatti negli anni Settanta e Ottanta alcuni istituti di credito prevedevano per alcuni conti correnti, a seconda della loro giacenza, premi annuali in natura, come ad esempio piccoli elettrodomestici.


Periodico Italiano Magazine - Direttore responsabile Vittorio Lussana.
Registrata presso il Registro Stampa del Tribunale di Milano, n. 345, il 9.06.2010.
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